29/12/11

Periferia d’Europa: crisi provoca allarme suicidi e depressione

Con lo spread sale il numero di persone che si tolgono la vita e gli affetti da distimia. Inoltre, comincia ad essere evidente la tendenza all'eliminazione delle spese mediche dal sempre più ristretto budget di spesa familiare

Il lato più oscuro della crisi si evince dai dati recentemente diffusi dall’European Public Health Association e dalla terza sezione del Consiglio Superiore della Sanità. A pagare il conto più salato sono i paesi PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), denominati dal resto d’Europa ”paesi maiali”  a causa del pessimo stato delle loro economie, rappresentano la periferia d’Europa.
La Grecia è la prima della lista nera con un aumento dei suicidi nell’ultimo anno del 40%. L’organizzazione Klimaka, che si occupa della gestione di servizi d’assistenza per la prevenzione dei suicidi, ha dichiarato: “Un tempo ricevevamo circa 10 telefonate al giorno, ora vi sono giornate in cui ne arrivano 100. A chiamare sono uomini finanziariamente rovinati, tra i 35 e i 60 anni, che hanno perso la loro identità di marito che porta il pane a casa e non si sentono più uomini secondo i nostri standard culturali”(Adnkronos).
I suicidi causati dalla crisi economica sono in aumento anche nel resto dei PIIGS. Inoltre secondo l’istituto di ricerca europeo, in Spagna la depressione è aumentata del 20% ed anche in Italia, benché manchino stime attuali, arrivano i primi segnali di un “forte incremento della depressione” e di una distimia crescente anche tra le fasce più giovani. Ciò che accomuna i paesi periferici del vecchio continente, è anche una diminuzione alle abitudini salutari, quali prevenzione, che spesso si rivela fatale, e cure mediche. Di contro, si registra un aumento dei ricoveri ospedalieri, quindi una maggiore spesa sanitaria insostenibile per le strutture ospedaliere, già colpite dai tagli alle risorse finanziarie ad esse destinate, imposti dei governi centrali. L’effetto ricade sulle fasce più deboli della popolazione che, non avendo la possibilità economica, man mano rinunciano a curarsi. Tornando alla depressione, d’altronde non è una novità che essa sia sinonimo della recessione economica. Analizzando i dati diffusi nel 2009 dall’Eures sui suicidi in Italia, emerge che ogni giorno, un disoccupato si è tolto la vita, su un totale di 2.986 suicidi. Nel nostro Paese, disturbi psicologici quali ansie, stati depressivi ed attacchi di panico, sono più diffusi nelle donne e nei giovani.

Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura


14/12/11

Allarme India, muore oltre un milione di bambini all’anno

Save the Children chiede al governo finanziamenti urgenti nel settore sanitario per contrastare lo tsunami di morte che si sta abbattendo sui minori indiani

Prima di leggere, guarda l’orologio del tuo computer e tieni a mente l’ora.
C’è un’India della crescita economica, della globalizzazione, dell’apertura al mercato internazionale, di un governo che a fronte di un’evidente iperinflazione apre le porte alle multinazionali, condannando la piccola e media impresa. Questa è l’India intesa come seconda potenza economica del continente asiatico.
L’altra India, con oltre un miliardo di popolazione, detiene uno dei più alti livelli al mondo di diseguaglianza sociale, sia sotto l’aspetto distributivo sia relazionale ed il più alto tasso del pianeta di mortalità infantile. Lo storico regno delle caste, conta quasi cinquecento milioni di poveri, che difficilmente riescono ad accedere a servizi di base quali l’assistenza sanitaria, un adeguato sostentamento alimentare, l’educazione. E’ allarme rosso per la strage infantile che si sta attualmente consumando nel subcontinente asiatico: almeno 1,73 milioni di bambini sotto i cinque anni muore ogni anno a causa di malattie curabili, quali la polmonite o la dissenteria, dovute da uno scarso accesso all’acqua e a servizi igenico-sanitari di base.La campagna mondiale “No child born to die”(Nessun bambino nasca per morire), indetta da Save the Children, reclama, in riguardo alla grave situazione del Paese, al governo indiano un incremento degli stanziamenti nel settore sanitario neonatale e infantile dall’1,1% al 5% e l’adozione di misure d’assistenza e previdenza verso l’infanzia.
Inoltre, sette milioni di minori, circa quattro volte l’intera popolazione della Capitale, sono gravemente malnutriti: “l’India è la patria di un terzo dei bambini malnutriti del mondo” fa notare l’organizzazione umanitaria. Ma c’è ancora dell’altro. Nel Paese che più di ogni altro fa gola a capitali esteri e multinazionali, la piaga del lavoro minorile sfiora i 12,6 milioni di bambini impiegati in attività continuative. E’ possibile firmare on-line la petizione presentata all’amministrazione indiana da Save the Children per richiedere al governo finanziamenti urgenti nel settore sanitario e contrastare lo tsunami di morte che si sta abbattendo sui minori indiani. Il destino di una Nazione dipende dai passi che si permette ai bambini di compiere verso il futuro,  ma, riprendendo Joyce Lussu, “i piedini dei bambini morti non consumano le suole”.  Sono passati circa quattro minuti da quando hai guardato l’orologio, in questo lasso di tempo dodici piccoli indiani sono morti.

Eleonora Pochi

05/12/11

L’Italia nel baratro, ma le spese militari aumentano

Un Paese martoriato da decenni di speculazioni e malgoverno, messo in ginocchio dalla crisi. Tagli ovunque: Istruzione, Casa, Sanità, Lavoro, Assistenza, Previdenza; ma la guerra non si tocca, anzi s’incentiva
  
L’Italia detiene il quarto debito pubblico mondiale che, in crescita inarrestabile da decenni, ammonta a circa 2mila miliardi di euro. Nessuna manovra finanziaria  riuscirà ad estinguerlo, almeno nel futuro di una decina di generazioni. Un debito che peserà sulle spalle dei figli dei nostri nipoti ed oltre. Un tasso di crescita pari a zero, un deficit crescente, la progressiva sfiducia finanziaria verso il nostro mercato, l’esodo dei giovani italiani. Un Paese martoriato da decenni di speculazioni e malgoverno, messo in ginocchio dalla crisi. Tagli ovunque: Istruzione, Casa, Sanità, Lavoro, Assistenza, Previdenza; ma la guerra non si tocca, anzi s’incentiva: il nostro Paese è l’ottavo al mondo per spese militari.

Nel 2011 la spesa militare italiana ammonta a 20,5 miliardi di euro, un incremento dell’8,4% rispetto al 2010. Inoltre continuano ad arrivare dagli USA velivoli “Predator”, sofisticatissimi aerei senza pilota che permettono operazioni militari d’intelligence, di sorveglianza e di contrasto all’immigrazione clandestina; armamenti che l’Italia si è impegnata ad acquistare siglando contratti, ancora in essere, risalenti al 2004.

Proprio la scorsa settimana, la commissione Difesa della Camera ha votato cinque programmi di acquisto per ulteriori armature militari per un valore di oltre 500 milioni di euro. Dunque, invece di elaborare misure volte a tassare anche l’aria, sarebbe interessante capire quale sia la dinamica che blinda la voce ‘spesa militare’ nel bilancio statale, mentre la spesa pubblica è sempre più iniqua.

Anche nell’export di armi l’Italia spicca, addirittura come secondo esportatore mondiale, dopo gli USA e secondo dati Onu sul commercio internazionale, nel 2009 l’Italia è stata, per il quinto anno consecutivo, il primo esportatore mondiale di armi leggere(ossia di tipo non militare), anche Paesi canaglia tra i destinatari. Le principali imprese italiane esportatrici sono quelle del gruppo Finmeccanica, il quale azionista di riferimento è il Ministero dell’economia ed è fra le prime dieci società mondiali per fatturato militare. La recente questione giudiziaria dell’holding, che sta facendo emergere sporche dinamiche finanziarie, mazzette e tangenti in cambio di appalti, ha contribuito insieme ad altri fattori al crollo attuale del valore azionario del gruppo, eden clientelare di poltici, mogli, ex- militari etc.

Commerciano e producono armi che nella maggioranza dei casi servono a reprimere il dissenso da parte di regimi autoritari, molto spesso sostenuti, più o meno direttamente, dalle “democrazie” occidentali, colpevoli di sistematiche violazioni dei diritti umani. Le armi leggere provocano ben 500mila morti all’anno, permettono l’uso di bambini-soldato tra le file dei combattimenti.

Eleonora Pochi

21/11/11

Francesco Azzarà e Rossella Urru, ostaggi per la pace

Dei due cooperanti rapiti in Africa non si hanno notizie. Francesco in mano ai sequestratori da tre mesi e Rossella, sequestrata da Al Queida, entrambi colpevoli di aver fatto la scelta, difficile ma onorevole, di lavorare concretamente contro la violenza

Rosella Urru
Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre,Rossella 
Urru,ventinovenne e collaboratrice del Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli), è stata rapita in Algeria. La cooperante operava nei campi profughi Sahrawi, che accolgono le tribù in fuga dalla regione del Sahara Occidentale, loro territorio, sotto assedio marocchino da ben trentasei anni. Nonostante l’occupazione illegittima, la lotta per l’autodeterminazione condotta dal popolo Sahrawi è stata sempre pacifica ed ha ottenuto, gia dal 1966, il riconoscimento del Polisario, Fronte Popolare di Liberazione di Saguia el Hamra e Río de Oro, e l’autorizzazione dell’ONU per organizzare un referendum, che ancora deve realizzarsi a causa dell’invasione del Marocco, contrario all’autodeterminazione dei Sahrawi giacché mira al controllo delle risorse della regione. Da oltre trenta anni, non si erano mai verificati episodi di violenza da parte dei Sahrawi nei confronti di operatori umanitari che supportano la loro causa ed assistono i loro profughi. Il rapimento sembrerebbe spiegarsi con la presenza di uomini di Al Qaeda, che sono riusciti ad infiltrarsi tra i Sahrawi a causa di frange colluse del Polisario. Rossella, insieme a due cooperanti spagnoli, Ainhoa Fernandez de  Ricon dell’Associazione “Amici del popolo Sahrawi” e Enric Gonyalons, dell’organizzazione Mondobat è stata sequestrata da membri di Al Qaeda.

A parte rare note di solidarietà giunte dalle istituzioni romagnole, giacchè la Urru è nata in Sardegna e poi si è trasferita in Emilia Romagna, quasi niente è stato fatto concretamente per il rilascio dell’operatrice umanitaria. I familiari della ragazza hanno deciso di aprire un blog per  “raccogliere e condividere in un unico spazio, libero e aperto a tutti, le numerose testimonianze per l’immediata liberazione di Rossella”. Nonostante l’Unità di Crisi della Farnesina, il cui compito istituzionale è di tutelare gli interessi degli italiani all’estero in situazioni di emergenza, si dica costantemente al lavoro per ottenere la liberazione della Urru e si mantenga in costante contatto con la famiglia della ragazza, non sono stati ancora ottenuti risultati. Non poteva mancare Emergency, organizzazione umanitaria anch’essa angosciata dal rapimento di Francesco, a dare supporto al Cisp e alla famiglia di Rossella: “La nostra organizzazione in questo periodo sta subendo la stessa pressione: il 14 agosto scorso Francesco Azzarà, elogista di Emergency, è stato rapito in Sudan e ancora non si hanno notizie di una sua possibile liberazione entro breve” s’apprende da una nota della presidente Cecilia Strada. Il sequestro di Francesco ha avuto luogo a Nyala, capitale del sud Darfur, durante il viaggio in auto verso l’aeroporto. Da tre mesi il volontario è nelle mani dei rapitori, ma anche di lui, come di Rossella, i media non si occupano molto, come non si occuparono di Vittorio Arrigoni durante il seppur brevissimo rapimento, casomai  si parlo’ molto di Vittorio, per qualche giorno, dopo la sua morte e poi di nuovo il vuoto. Come fossero figure che agiscono nell’ombra di in contesto isolato, talmente lontano da noi da non sforzarci neanche di capire come e perché ci sono italiani che rischiano la vita per aiutare pacificamente persone in seria difficoltà. Questi sono gli italiani che rimandano a quell’orgoglio patriottico, ad oggi indubbiamente depredato.

Eleonora Pochi

16/11/11

I giovani palestinesi: “Basta all’ipocrisia delle istituzioni internazionali”

Con il riconoscimento all’Unesco, la Palestina ha raggiunto un buon risultato. Ma c’è ancora molto, anzi moltissimo, da fare
  
L’Unesco ha riconosciuto la Palestina come Stato membro ed è subito caos. A parte la perenne astensione italiana al voto sulle questioni palestinesi, è l’arrogante reazione di Usa e Israele che suscita particolare ed ulteriore indignazione. Washington, definendo “inaccettabile” l’ammissione della Palestina nell’agenzia culturale delle Nazioni Unite, ha bloccato i fondi destinati all’organizzazione, pari a 60 milioni di dollari. Dal canto suo, Israele ha stabilito di accellerare l’incessante progetto di colonizzazione, che prevede la costruzione di 2000 nuove abitazioni, tra Gerusalemme ed il sud di Betlemme, prima città che sarà proposta all’Unesco per essere riconosciuta “patrimonio dell’umanità”. Netanyahu, oltre che tagliare anch’egli i fondi destinati all’Unesco, ha sospeso il trasferimento di fondi derivanti da tasse e dazi per circa 100 milioni di dollari destinati ai Territori Palestinesi, com’è successo già in primavera, in occasione dell’accordo di riconciliazione Fatah-Hamas.

I  siti che beneficeranno del riconoscimento Unesco potranno essere tutelati e
mantenuti finanziariamente dall’agenzia internazionale. In altre parole, Israele non potrà più bombardare e distruggere alla cieca, almeno alcuni luoghi saranno “protetti” dall’Unesco. Si continuerà a bombardare villaggi, demolire abitazioni, uccidere indistintamente uomini, donne, bambini, distruggere reti elettriche, idriche e fognarie per destabilizzare la quotidianità del popolo arabo, impedire gli spostamenti di Palestinesi. Tutto questo grazie al benestare anzitutto degli Usa, che da anni fornisce tecnologie e aiuti alle forze armate israeliane, poi da gran parte d’Europa, prima tra tutte l’Italia, che sostiene economicamente, politicamente e militarmente il governo sionista. La scorsa settimana, per dire la più recente, è stato concessa in Sardegna un’esercitazione congiunta delle aviazioni italiana e israeliana.
Uno Stato canaglia, propenso all’annientamento del popolo palestinese, che agisce in piena violazione del diritto internazionale ed in palese contrasto con i diritti umani fondamentali, responsabile di un blocco criminale imposto sulla Striscia di Gaza, calorosamente accolto in casa nostra. I giovani palestinesi della West Bank, hanno dichiarato in un comunicato rivolto all’Onu: “A scuola, all’Università e attraverso le nostre organizzazioni, abbiamo appreso i diritti umani e il diritto internazionale, eppure sembra che i palestinesi rientrino in una classe di persone a cui questi diritti non si applicano – s’apprende dalla nota in rete -. Come i neri in America mezzo secolo fa, o in Sud Africa due decenni fa, siamo vittime di un’ideologia che mira all’esclusione e di quelli che la tollerano e la rendono possibile. Infatti, le voci che parlano con più vigore di diritti umani, libertà, Stato di diritto, sono le stesse che rendono possibile la sistematica violazione dei principi che professano. Siamo stanchi – continuano i giovani palestinesi – di ascoltare queste istituzioni ipocrite, che rispettano il nostro popolo solo a parole, calpestando i nostri diritti e le nostre aspirazioni. Cosa ci guadagna l’ONU a condonare questa ipocrisia, questo doppio gioco e le sistematiche violazioni delle sue stesse leggi e principi? ”.


Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura

08/11/11

Morti bianche in aumento, una strage nascosta

Intervista a Carlo Soricelli, fondatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna: “Anche per i caduti sul lavoro andrebbero celebrati i funerali di Stato”
  
Dal 2006 ad oggi, secondo dati Anmil, sono oltre cinque milioni gli infortuni sul posto di lavoro e di essi oltre 200.000 hanno arrecato un’invalidità permanente. Sempre negli ultimi cinque anni, oltre 7.000 morti bianche testimoniano un latente stillicidio, di cui sembrano accorgersene solo le famiglie delle vittime, che, nella maggioranza dei casi,  hanno perso un loro caro a causa dell’inadempienza dei datori di lavoro o della scarsa tutela alla sicurezza di lavoratori autonomi e informali. Sembra dunque fuori luogo, o meglio fuorviante, definirle “morti bianche”, dove bianco allude all’assenza di un diretto responsabile dell’incidente. La disattenzione verso un fenomeno cosi’ grave, ha portato alla nascita dell’Osservatorio Indipendente di Bologna, organizzazione che monitora costantemente la situazione reale dei caduti sul lavoro, analizzando il fenomeno ed includendone tutte le componenti, a differenza dell’Inail che omette dai calcoli le morti dei lavoratori in itinere, in nero ed informali. Carlo Soricelli, fondatore dell’Osservatorio di Bologna, ci ha aiutato a circoscrivere cause e conseguenze del fenomeno.

Come e perché nasce l’Osservatorio Indipendente di Bologna?

Dopo la morte dei sette operai alla Thyssenkrupp di Torino, cercavo notizie aggiornate in rete sull’ampiezza del fenomeno “morti sul lavoro” e mi accorsi che i dati riportati riguardavano periodi di tempo conclusi da mesi oppure si basavano sull’anno precedente. Decisi così di creare un Osservatorio, nato nel gennaio del 2008, per monitorare le morti sul lavoro nel nostro Paese. Attraverso un blog si informano costantemente i cittadini sulla reale situazione delle morti bianche, dietro le quali ci sono tantissimi interessi economici, politici e d’immagine. L’Osservatorio di Bologna, a differenza di altre fonti, ha la massima libertà ed indipendenza.

A differenza dei dati diffusi dall’Inail, l’Osservatorio ha recentemente sottolineato come il 2011 sia un anno all’insegna del peggioramento, in riguardo alle morti bianche. Come mai questa discrepanza nelle analisi?

Già dallo scorso anno avevamo registrato un peggioramento rispetto al 2009, pari ad un aumento delle morti bianche nel 2010 del 5,1%. Quest’anno sta andando ancora peggio, visto che siamo già allo stesso numero di morti sul lavoro del 2009(554 contro 555) ed al 27 ottobre si registrano 12 morti in più rispetto lo stesso giorno del 2010. Occorre precisare che nel presente calcolo non sono inclusi i lavoratori in itinere morti sulle strade, che farebbero raddoppiare il numero delle vittime.
L’Inail inserisce tra le vittime solo i suoi assicurati, che rappresentano una parte delle morti bianche, escludendo militari, lavoratori in nero, gli agricoltori “informali” che muoiono in tarda età schiacciati dai loro trattori, i lavoratori in itinere e potrei continuare ancora… Dalle statistiche ufficiali sfuggono almeno il 20-25% delle morti bianche. L’Osservatorio non fa questo genere di distinzioni nell’elaborazione dei dati: se una persona muore lavorando, per noi è un morto sul lavoro.

A differenza di quanto si crede, l’industria non è il primo settore nella lista nera delle morti sul posto di lavoro, bensì è l’Agricoltura. Soprattutto la cosiddetta ‘agricoltura informale’ miete il maggior numero di vittime. Può spiegarci questo fenomeno?

Sono categorie emarginate e poco sindacalizzate. La maggioranza delle morti in Agricoltura sono causate da trattori “killer”, che uccidono centinaia di coltivatori . Non è un fenomeno circoscritto ma riscontrabile in tutto il Paese, sono morti che hanno poca risonanza mediatica. Ad oggi, considerando solo il 2011, sono già 105 gli agricoltori morti perché schiacciati dal trattore. Basterebbero pochi interventi mirati per salvare tantissime vittime.

Quali misure dovrebbero essere adottate dalle istituzioni per contrastare questo fenomeno?

I vecchi trattori dovrebbero essere rottamati per permettere ai coltivatori di acquistarne altri con cabine protette. Andrebbero poi introdotti incentivi: gli anziani agricoltori, tra l’altro, dovrebbero essere sottoposti obbligatoriamente a visite mediche che attestino l’idoneità alla guida, considerando anche che il territorio italiano è in pendenza e i riflessi poco pronti non lasciano scampo in caso di manovra errata. Il 60% delle morti bianche appartiene ai settori dell’Edilizia e dell’Agricoltura. Sono lavoratori per lo più meridionali e stranieri ed anche nei cantieri del Nord, gestiti talvolta da piccole aziende, è registrato un livello di sicurezza inesistente.

Sarebbe giusto, secondo lei, celebrare funerali di Stato per i lavoratori morti sul posto di lavoro?

Certo. Sono martiri del lavoro, solo così si capirebbe cosa c’è veramente dietro ad ogni ‘morte bianca’.

Perché interessa più un delitto passionale piuttosto che un lavoratore morto mentre esercitava il suo mestiere?

Le persone che non vivono da vicino queste tragedie, percepiscono come “normale” il fatto che nel Paese ci siano morti sul posto di lavoro, ma madri, padri e fratelli delle vittime, sono costretti a vivere una tremenda disgrazia, portando dentro loro un’eterna disperazione: sanno che non è stata la fatalità a causare la morte di un loro familiare, bensì leggerezza verso l’incolumità dei lavoratori e lo sfruttamento al quale sono costretti.

Perché le istituzioni (e i media) tendono a sminuire un simile fenomeno?

Anche loro percepiscono la questione come “normalità”, tranne casi come quello della Thyssen e di Barletta che meritano le prime pagine in quanto notizioni, dimenticati il giorno dopo. Continua silenziosamente l’incessabile stillicidio che provoca oltre mille morti all’anno.


Fonte: Osservatorio Indipendente di Bologna




Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura

07/11/11

Il SIAM ai musicisti indipendenti: “Aprite gli occhi”

Per i lavoratori del mercato musicale non vita facile, specialmente in tempo di crisi. Parla Indiana Raffaelli, dal Sindacato Italiano Artisti della Musica


Svolgono un lavoro come un altro, i musicisti, ma sono da sempre stati considerati come persone che nel perseguire la loro passione, vogliono ricavarci pure profitto. In realtà, non la si può così generalizzare. Spinti, più o meno volontariamente, al margine del mercato lavorativo a causa di un’intrinseca discriminazione da parte dei più disparati attori sociali, colpevoli di scegliere di fare il lavoro che più gli piace e per il quale si dimostra maggior attitudine e, proprio per questo, vittime di chi specula sulla loro motivazione sottopagandoli o offrendo loro inammissibili accordi lavorativi. Non hanno la possibilità di essere tutelati da un contratto di categoria, ne tanto meno da tariffari.

La quasi totalità dei musicisti indipendenti non riesce a sfamarsi di musica, ma è costretta a dover associare al lavoro principale, ossia che assorbe la maggior parte dell’impegno quotidiano, almeno un altro. Qui, nel settore musicale, la crisi si sente amplificata. Mentre le major monopolizzano il mercato, decidendo chi e come deve avere l’attenzione del pubblico nazionale ed estero, i musicisti autonomi arrancano tra la pirateria informatica, la difficoltà nel riuscire a realizzare live-show e un apparato rappresentativo di categoria che fatica a far sentire la propria voce. Tra gli enti che si impegnano a preservare i diritti dei musicisti c’è il Sindacato Italiano Artisti della Musica che tiene viva la richiesta alle istituzioni di un’adeguata regolamentazione per tutti i lavoratori dello spettacolo. Abbiamo avuto il piacere di parlare con Indiana Raffaelli, sindacalista SIAM, per approfondire alcune problematiche del settore musicale.

A fronte della situazione attuale, quali sono nello specifico le richieste del sindacato alle istituzioni?

A sinistra, Indiana Raffaelli
Il SIAM nasce con l’obbiettivo di costruire un sistema welfare, attualmente inesistente nel nostro Paese, che garantisca un’adeguata tutela per i musicisti freelance. Per questo chiediamo un adeguamento dell’attuale legislazione alla realtà delle professioni sceniche e quindi il riconoscimento dei musicisti come lavoratori, pur nella ambiguità esistente fra autonomi e dipendenti. Invece, dopo che si è molto parlato della necessità di  estendere il diritto ad usufruire di ammortizzatori sociali anche per le categorie meno considerate, è giunta una sentenza della Cassazione che esclude tutti gli artisti dalla possibilità di godere dell’indennità di disoccupazione, sulla base di un regio decreto del 1935. E’ evidente che una regola scritta in un contesto sociale totalmente differente, che forse all’epoca avrebbe potuto trovare una sua ragion d’essere, oggi è totalmente inadeguata e discriminatoria, escludendo dall’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti anche quei pochi artisti che fino ad oggi, lavorando con contratti subordinati e versando gli specifici contributi, potevano richiederla. Ci uniamo insieme a molti altri enti ed artisti nel richiedere con forza l’abrogazione di questa norma.

Rispetto all’estero, quali sono gli svantaggi di essere un musicista in Italia, oltre il fatto di essere quasi sempre visti come “persone che nel perseguire la loro passione, vogliono ricavarci pure profitto”?

In primo luogo la mancanza del rispetto dovuto al musicista in quanto lavoratore. Qui, come ha giustamente detto, chi fa il musicista o viene considerato un dilettante: “Si esibisce facendo quello che gli piace e  vuole pure essere pagato”, oppure viene accomunato alla figura della “star”,  e quindi si pensa che possa godere di guadagni milionari.

Manca poi , come dicevamo, una legislazione adeguata alla  specificità del lavoro artistico, che è un lavoro atipico: i francesi ci hanno  ben definito come “lavoratori intermittenti” ed hanno approntato un efficiente sistema di ammortizzatori sociali che, riconoscendo la necessità dei periodi  trascorsi in studio e di preparazione, permette di svolgere l’attività artistica a tempo pieno. Molti altri paesi hanno approntato misure che favoriscono il lavoro artistico, con sgravi fiscali per i lavoratori o gli investitori, con una costante formazione e garantendo supporto all’inserimento nel mondo del lavoro, anche con aiuti economici.

Come l’attuale crisi ha colpito il settore musicale?

Occorre una piccola premessa. Per quanto riguarda alcuni fenomeni ad oggi evidenti in tutti i settori produttivi, noi siamo stati un terreno di sperimentazione. Ad esempio, siamo stati fra i primi a cui è stato chiesto di aprire Partita Iva benché percepissimo introiti miserrimi e nonostante si svolga un’attività che presenta tutte le caratteristiche del lavoro dipendente. La delocalizzazione ha portato all’estero una grandissima parte del lavoro di registrazione di colonne sonore e l’uso di appalti esterni per le trasmissioni televisive non ha abbassato i costi, ma ha ridotto i diritti ed i compensi dei musicisti.
Oggi la crisi ci colpisce in vari modi. Le amministrazioni locali tirano avanti con budget quasi inesistenti e quindi hanno drasticamente ridotto la loro funzione di promotori culturali, tagliando risorse ai festival e a tutte le attività delle piccole associazioni, importantissime per una diffusione capillare della cultura musicale sul territorio nazionale. I tagli al Fondo Unico per lo Spettacolo hanno ridotto l’impiego di lavoratori aggiunti nelle compagini orchestrali stabili, gli sponsor privati sono più cauti nel finanziare attività musicali e quando lo fanno, preferiscono puntare sui grandi nomi, che assicurano un ritorno pubblicitario sicuro. Restano quindi escluse la maggior parte delle realtà medio-piccole, senza le quali si va sempre più verso una cultura fatta di cattedrali nel deserto e di sporadici eventi.

Come può un musicista emergente tutelarsi da solo di fronte circostanze lavorative inadeguate?

La solitudine crea debolezza e forse una delle principali cause dell’attuale mancanza di tutele per i musicisti sta proprio nella tendenza di chi fa musica ad isolarsi, a coltivare l’illusione di una specie di “meritocrazia” che dovrebbe far sfondare i più bravi, a considerare se stessi più “artisti” che lavoratori. Un musicista difficilmente ha approfondite conoscenze giuridiche, e quindi la autotutela individuale è abbastanza difficile, anche perché il mercato attuale del lavoro musicale è profondamente deregolamentato e privo di controlli, così i giovani sono facile preda di pseudoimpresari e talent-scout senza scrupoli. Il consiglio che posso dare, è quello di aprire bene gli occhi, non farsi lusingare da promesse fumose, non lavorare gratis nella speranza di ottenere in  futuro chissà cosa, e cercare di sviluppare una coscienza collettiva.

So che è una brava musicista, che messaggio vuole lasciare ai giovani  e meno giovani che quotidianamente fanno i conti con la giungla del mercato  musicale?

Diamoci da fare tutti insieme per cambiare il nostro settore: dove ci sono più tutele e maggior rispetto tutti lavorano, creano in libertà e vivono meglio. La  deregolamentazione aiuta soltanto i più potenti.

Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura

24/10/11

L’altra faccia del 15 ottobre

Oltre gli episodi di violenza, c'è stata la presenza di centinaia di migliaia di persone in piazza che hanno condotto una grande protesta, messa in ombra da gran parte dei media
  



Un fiume di esseri umani, uniti per il cambiamento globale, compatti contro la crisi. Studenti, lavoratori, disoccupati, giovani e meno giovani hanno sfilato sabato 15 ottobre per decine di chilometri, inarrestabili, instancabili, armati solamente di un’intelligente consapevolezza. Un esercito di centinaia di migliaia di indignati, dalle 14 fino a sera, di cui non si parla. Tutti sanno, però, di quella banda di incappucciati che ha messo a ferro e fuoco piazza San Giovanni, delle macchine incendiate, del blindato della Polizia in fiamme. Quelle immagini hanno fatto, nel giro di pochi minuti, il giro del mondo, facendo calare un sipario nero e spettrale sulla giornata di mobilitazione romana. La manifestazione di sabato scorso rispondeva all’appello internazionale “United for Global Change”, rappresentando una protesta mondiale, anche oltre la data del 15, tesa a denunciare i meccanismi di un sistema economico, il capitalismo, che ha prevalso sulle democrazie. “Non siamo merce nelle mani dei banchieri”, “Gli esseri umani prima dei profitti”, “democrazia reale, ora!” sono alcuni degli slogan che hanno accompagnato l’iniziativa.

E’ il 15 ottobre, ma è una giornata di primavera a Roma. Già dalla tarda mattinata piazza della Repubblica non riesce a contenere i manifestanti e nell’attesa di partire in corteo anche piazza dei Cinquecento è gremita di indignati. Ci sono uomini, donne ed anche bambini e la violenza non rientra nel vocabolario delle centinaia di migliaia di persone in piazza. Poco dopo le 14 si parte,  uno tsunami umano invade lentamente Roma, teatro di una grande mobilitazione, anticipata dalle recenti proteste dei Draghi Ribelli e degli Indignati accampati in strada. In tutto il mondo si manifesta per la stessa causa e in strada si respira un’atmosfera difficilmente descrivibile, un altro emisfero rispetto al Far West di piazza San Giovanni.

Si procede adagio, alcuni inquilini di Via Cavour, soprattutto anziani, si affacciano accennando gesti di supporto alla protesta, trasversale, pacifica, dal basso. Ma questa è l’Italia che non finisce in prima pagina. In fondo è solo il 99%, una percentuale  messa in secondo piano da quell’1% la cui protesta si esprime attraverso inconcepibili atti di violenza. Proprio quel 99% sceso in piazza per rigettare il pagamento di un debito contratto da un’1%. La proporzione è la medesima. Proseguendo, s’incontrano le prime due auto bruciate e qualche vetrina rotta. Suonano i telefoni di molti di noi, “Dove sei? Fai attenzione”. Da casa guardano preoccupati alla tv la guerriglia che si sta scatenando a pochi chilometri di distanza, gli scontri tra black bloc e forze dell’ordine, tra manifestanti e black bloc, tra manifestanti e celerini, che ne colpiscono alcuni gratuitamente. Il bilancio è di 70 feriti.
Roma è l’unica città al mondo, durante la giornata del 15, che registra simili avvenimenti. Una vergogna all’italiana.

Si procede in corteo, cercando di rimanere uniti ed evitare che nessuno si disperda. Un gruppo di scellerati violenti non ferma uno tsunami pacifico. Arrivati in prossimità del Circo Massimo, si continua verso Piramide, per proseguire lungo via Magna Grecia. Qui s’incontrano numerosi cassonetti rovesciati e  trascinati in mezzo alla strada, decine di ragazzi si uniscono per ricollocarli pian piano al ciglio della strada, molti li applaudono, ma questo nessuno lo sa. Sono le 20:30 circa quando arriviamo alla volta di piazza San Giovanni, ci viene impedito di passare oltre gli archi, l’intera area è stata chiusa.
Faccio capolino dagli archi per capire la situazione e quello che si intravede è una piazza tetra, triste, devastata, privata della sua bellezza, illuminata dai lampeggianti delle camionette della polizia. Tutt’altra cosa rispetto alla giornata trascorsa con le migliaia di manifestanti con i quali  ancora cammino. Si decide di proseguire fino a piazzale Aldo Moro, dal quale gli studenti erano partiti dieci ore prima. Il passaggio sulla Tangenziale ci ha aiutato a contarci. Sono quasi le 22, ma basta voltarsi per rendersi conto che, nonostante la stanchezza, siamo ancora in migliaia, un lunghissimo fiume di persone. Una straordinaria sorpresa, un’indescrivibile soddisfazione. Chissà che penserebbe la gente a casa se ci vedesse alla tv. Chissà quanto soddisfacimento avremo potuto dare alle ulteriori migliaia di manifestanti che si sono trovati inermi nella guerriglia, il cui sacrosanto diritto di manifestare è stato infangato.

Una giornata, quella del 15 ottobre, che ha rappresentato l’indignazione a livello globale, una violenza prettamente italiana. La rivoluzione non è un pranzo di gala, ma neanche una guerra tra poveri.

Pics by Filippo Rioniolo
Eleonora Pochi

14/10/11

"Gli esseri umani prima dei profitti", arriva la rivolta mondiale

Il prossimo 15 ottobre Roma sarà emblema della protesta italiana, nata dall’appello internazionale: “Non siamo merce nella mani di politici e banchieri”
  
Il 15 ottobre non è una comune giornata di protesta, di quelle che oramai ogni giorno abitano legittimamente le strade della Capitale. Non è neanche una mobilitazione esclusivamente nazionale, come quelle che hanno riversato milioni di italiani in piazza. E’ un qualcosa di più grande. E’ la rivolta dell’Occidente, di quella parte di mondo sulla quale il capitalismo sta manifestando l’altro lato della medaglia, sulla quale un sistema economico ha prevalso sulla democrazia.

Le misure d’austerità imposte dai governi, subordinati al volere del Fmi, Bce e Ue, non sono solo ingiuste per la popolazione, provocando tragiche conseguenze sulle condizioni e la qualità della vita quotidiana di tutti, ma fin dal principio sono destinate a fallire. L’intento dell’austerity è di eludere il default, che provocherebbe il crollo delle banche e delle grandi aziende, finora nutritesi di bolle speculative, e non di assicurare il bene comune. I Signori del profitto hanno causato la crisi economica e finanziaria più profonda dal 1929, delegando ai cittadini il pagamento di un debito mai contratto, e preservando loro la via della povertà, dell’instabilità economica, sociale e psicologica a causa della crisi. Le vie di molte metropoli, prima tra tutte Atene, sono sempre più popolate da senzatetto, uomini affamati, persone bisognose di cure mediche ed assistenza.

Il cosiddetto divario tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo sta man mano colmandosi, ma non, come era auspicabile, grazie allo sviluppo di questi ultimi, quanto per l’involuzione del “Nord del mondo”. Proprio quei Paesi che la iena capitalismo ha sbranato fino all’osso, man mano ci assomigliano. Chissà perché.

Gente d’Europa, d’America ed altre regioni del mondo, il 15 ottobre, prenderà le strade e le piazze con l’intento di dare inizio ad una forte e chiara resistenza pacifica, di fronte a classi
dirigenti che agiscono nell’interesse di una ristretta oligarchia, ignorando clamorosamente volontà e reali esigenze di miliardi di cittadini. C’è bisogno di un’altra economia, un’altra società e soprattutto di una democrazia vera.
Gli americani che hanno visto pignorate le loro case dallo Stato a causa dell’insolvenza dei loro prestiti, quei milioni di persone nel mondo che non hanno più un tetto sulla testa colpevoli di non esser riusciti a pagare una rata del proprio mutuo, chi è costretto a scegliere tra cibo o medicine perché non ha abbastanza soldi per avere entrambi oppure i ragazzi indebitati già prima di iniziare a lavorare pur di pagarsi gli studi, sono episodi che dimostrano i frutti della semina capitalista.
United for Global Change è il nome del movimento globale ed il Coordinamento 15 ottobre sta occupandosi dell’organizzazione nazionale della giornata che convergerà a Roma. La manifestazione partirà il prossimo sabato alle 14.00 da piazza della Repubblica e sfilerà per le principali strade della Capitale fino ad arrivare in piazza San Giovanni. Non ci resta che aspettare il prossimo sabato. People of the world, rise up.

Eleonora Pochi

12/10/11

La Roma dell’iPhone in metro, tra conti in rosso e licenziamenti

Un passo tecnologico in avanti sicuramente apprezzabile, se non fosse per i dieci compiuti indietro
Anche in metrò si potrà telefonare. Da ora è possibile grazie ad un accordo siglato dal Comune di Roma con i quattro giganti della telefonia mobile, Tim, Vodafone, Wind e 3Italia, che prevede la copertura del servizio sull’intera linea A entro il 2012 . “Un opportunità che non poteva essere rinviata” secondo Alemanno, soddisfatto del passo in avanti per raggiungere il livello di competitività tecnologica di molte capitali europee. Secondo quanto dichiarato dall’assessore capitolino alla Mobilità, Antonello Aurigemma, si tratterebbe di un servizio a costo zero per l’amministrazione comunale, che frutterà ad Atac circa un milione di euro l’anno. Non si sa più da dove far cassa.

I municipi romani sono allo stremo, non si hanno più fondi per garantire ai cittadini servizi sociali essenziali quali assistenza ai disabili e agli anziani, asili nido e mense scolastiche. “I municipi di Roma sono oggi ridotti alla completa paralisi – s’apprende dalla dichiarazione congiunta dei presidenti municipali -. Privi di risorse economiche e di personale cercano di fronteggiare il malessere dei romani assicurando il governo dei territori in condizioni ormai disperate. Non si aprono le scuole e asili nido ormai pronti e disponibili ad accogliere i nostri bambini”. Gli amministratori municipali reclamano fondi stanziati da tempo, ma mai pervenuti. Alemanno ha definito “presuntuosa” la protesta dei minisindaci.

Ma torniamo alla nostra cara metropolitana. Sono bloccati i lavori per il prolungamento della metro B1 oltre Conca d’Oro, per la tratta Jonio-Bufalotta, poiché il Comune di Roma non ha rispettato l’impegno, assunto con un’ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri, di finanziare il progetto attraverso valorizzazioni immobiliari, per un ammontare di 650 milioni di euro. Le aree in questione non sono neanche state ancora stimate.
 Anche per la Metro C i cantieri sono stati bloccati: “Siamo in attesa di 135 milioni di euro per lavori già eseguiti e di 80 milioni destinati alla linea C. La tratta San Giovanni-Colosseo è di fatto bloccata per questo” ha dichiarato l’Ad di Roma Metropolitane. I mancati finanziamenti comunali, ma anche regionali e statali, recintano di nastro segnaletico cantiere dopo cantiere e scaturiscono una catastrofe occupazionale. I sindacati Feneal, Uil, Filca, Cisl, Fillea, Cgil hanno annunciato l’arrivo di un’ondata di licenziamenti collettivi del Consorzio Metro C, già a partire dallo scorso 30 settembre: “Colpirà 90 lavoratori. Nei primi giorni di ottobre – s’apprende dalla nota – partiranno i licenziamenti anche per la linea metropolitana B1, la cui prima ondata coinvolgerà ulteriori 40 lavoratori. Prende dunque corpo lo spettro di una vera e propria emorragia occupazionale nella città di Roma”.

Ma gli operai dell’underground non sono certamente i soli ad essere licenziati in massa. Fanno loro compagnia, prendendo in considerazione solo la scorsa settimana, i 90 operatori della Croce Rossa italiana, che ha causa della cessazione dell’accordo tra Ares 118 e Cri, saranno licenziati in quanto verranno chiuse numerose postazioni 118 nelle zone periferiche della Capitale e in provincia.  Come non considerare, infine, quei 257 operatori sociosanitari del San Raffaele di Velletri, licenziati in massa. Questi sono dati che riguardano esclusivamente la scorsa settimana. Una capitale che giorno dopo giorno assapora il gusto della povertà, ma tutto sommato con l’iPhone in metro ci si può svagare.  Si aggirano i problemi di una realtà romana sempre più amara, offrendo una caramella.


Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura

04/10/11

La Marcia per la Pace cinquant'anni dopo

Come ogni anno, Perugia ed Assisi hanno accolto migliaia di attivisti. Un sentiero di ventiquattro chilometri per attirare l'attenzione nazionale ed internazionale su tematiche che pesano sulle spalle dell'umanità

A cinquant’anni dalla prima Marcia per la Pace organizzata da Aldo Capitini, filosofo perugino, la manifestazione continua a svolgersi con un'enfasi e partecipazione sempre crescenti. In circa duecentomila hanno sfilato lo scorso 24 settembre, da Perugia ad Assisi, un cammino lungo ben 24 chilometri. Uno tsunami di pace con l'intento di spazzar via quanta più violenza possibile. Il nome dell'iniziativa per quest'anno è lo stesso del 1961, “Per la pace e la fratellanza dei popoli”, un obiettivo per il cui raggiungimento si adoperano quotidianamente milioni di esseri umani, ma altrettanti milioni remano contro. Ci si rende conto che molto è stato fatto, ma ancora c'è tanto da lavorare. Sul palco allestito in piazzale della Basilica di San Francesco, sono state spese parole per la liberazione di Francesco Azzarà, volontario Emergency rapito lo scorso mese in Darfur e che sembrerebbe essere presto rimpatriato. Si è parlato della questione palestinese e dell'incidenza che il conflitto arabo-israeliano assume nel contesto mondiale, anche analizzando il ruolo dei capitali occidentali tesi a finanziare le guerre. Infine il tema del taglio alle spese militari è stato, come ogni anno, oggetto di una cosciente e ragionata riflessione.

Un rinnovo, quello della Perugia-Assisi, di un appello alla pace in virtù dell'uguaglianza tra popoli, un richiamo alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, troppo spesso dimenticata: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti – recita il primo articolo del documento promosso dagli Stati membri delle Nazioni Unite, stilato poco dopo le atrocità della Seconda guerra mondiale -. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Utopistico per molti, imprescindibile per altri. L'appello del Comitato promotore dell'appuntamento annuale della pace è concreto, possedendo principi ispiratori, proposte ed impegni. “Se vogliamo la pace dobbiamo investire sulla solidarietà e sulla cooperazione a tutti i livelli – s'apprende dalla mozione approvata dal 'popolo della pace' -, a livello personale, nelle nostre comunità come nelle relazioni tra i popoli e gli stati. La logica perversa dei cosiddetti "interessi nazionali", del mercato, del profitto e della competizione globale sta impoverendo e distruggendo il mondo. La solidarietà tra le persone, i popoli e le generazioni, se prima era auspicabile, oggi è diventata indispensabile”. Tra le proposte avanzate nel documento figurano investimenti su giovani, educazione e cultura, tagli alle spese militari, incentivare un'informazione libera e pluralista, garantire l'accesso al cibo e all'acqua per ognuno: “Il futuro non è nella chiusura in comunità sempre più piccole – sottolinea il comitato promotore della Marcia -, isolate e intolleranti che perseguono ciecamente i propri interessi ma nell’apertura all’incontro con gli altri e nella costruzione di relazioni improntate ai principi dell’uguaglianza e alla promozione del bene comune. Praticare il rispetto e il dialogo tra le fedi e le culture arricchisce e accresce la coesione delle nostre comunità. I rifugiati e i migranti sono persone e come tali devono vedere riconosciuti e rispettati i diritti fondamentali”.

Eleonora Pochi

30/09/11

“Existence is Resistance”, due giorni al fianco della Palestina

Dibattiti, musica e documentari sul popolo più ingiustamente tormentato al mondo accompagneranno le giornate del 30 settembre e 1 ottobre a Roma

Una due giorni intensa che offre reale informazione e intrattenimento di qualità, quella organizzata dal Csoa Forte Prenestino, la rete Free Palestine Roma e il movimento Existence is Resistance. Nella giornata di venerdì 30 settembre, presso la Facoltà di Lettere di RomaTre, avrà luogo un dibattito sulla campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) contro il progetto coloniale portato avanti da Israele in Palestina. La campagna si impegna da anni a contrastare attivamente l’occupazione, portata avanti da decenni dallo Stato di Netanyahu, attraverso il boicottaggio di merci, ma non solo. Molti artisti israeliani contrari all’occupazione, hanno scelto di aderire all’iniziativa BDS evitando di esibirsi a Tel Aviv e dimostrando quindi come l’arte riesca ad abbracciare e consolidare la lotta del popolo palestinese. A dimostrazione di questo virtuoso legame, verrà proiettata l’anteprima italiana del documentario Hip Hop is bigger than Occupation, un diario di viaggio di rapper, tra cui Lowkey e Shadia Mansour che si esibiranno nella serata al Forte Prenestino, e dj nella West Bank occupata. Uno spaccato di vita palestinese che, in particolare nel campo profughi di Balata, rende chiaramente l’idea di cosa significhi vivere sotto assedio.

La giornata successiva, sabato 1 ottobre al Csoa Forte Prenestino di Via Federico del Pino, la lotta palestinese sarà rappresentata attraverso l’hip hop, mostrando tramite le quattro discipline come esso sia un forte e pacifico strumento di protesta. Dal pomeriggio graffiti a Centocelle, a seguire cena e presentazione del reportage realizzato dalla carovana Corum, in occasione del viaggio fatto a Gaza in commemorazione di Vittorio Arrigoni. A chiudere l’incontro, un liveshow all’insegna del rap rivoluzionario di Lowkey, Logic e Shadia Mansour, la prima  rapper donna della scena hip hop araba. Gli artisti saranno affiancati on stage dagli italiani Kento, Ill Nano e Serpe in seno.
Lowkey, rapper inglese, presenterà il suo nuovo album “Soundtrack to the struggle”, come sempre fedele al suo fare marcato, oltre che da un indiscutibile talento, da uno splendido attivismo a favore della causa palestinese e dei diritti umani in genere.
Anche Logic, membro dell’associazione musicale People Army, volta a sottolineare che il concetto del “giusto” spesso può scostarsi dai comportamenti intrapresi dai potenti del mondo, porterà sul palco i frutti del suo ultimo lavoro, “Free man”.
Il costo del biglietto per il concerto è di 5 euro e il ricavato sarà devoluto al finanziamento dei progetti di Free Palestine Roma nei territori palestinesi occupati.


Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura

29/09/11

La manovra punto per punto: acqua alla gola per l'Italia

Con la nuova legge, il governo ha varato ulteriori misure urgenti per la (de)stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo

La manovra da 54 miliardi, diventata ufficialmente legge, è stata varata dal governo per raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2013. Una serie di misure d’austerità che prevedono lacrime e sangue per la quasi totalità dei cittadini, escluse quelle poche centinaia di intoccabili che non si capisce perché si ostinino a non voler pagare la loro crisi. La manovra prevede un aumento dell’Iva al 21% in previsione di un gettito annuo di circa 4,2 miliardi. Innalzamento che secondo Confesercenti “si tradurrà in un aumento di spesa mensile di circa 140 euro per famiglia”.
 
Riportiamo l’elenco dei principali beni per i quali è in atto l’aumento dell’imposta di consumo dal 20 al 21% pubblicato dall’Ufficio studi Confcommercio Imprese per l’Italia:- Televisori e prodotti per l’home entertainment, macchine fotografiche e videocamere, computer desktop, portatile, palmare e tablet, autocaravan, caravan e rimorchi, imbarcazioni, motori fuoribordo ed equipaggiamento barche, strumenti musicali, giocattoli, giochi tradizionali ed elettronici, articoli sportivi, manifestazioni sportive e parchi divertimento, stabilimento balneare, piscine, palestre e altri servizi sportivi, articoli di cartoleria e cancelleria, pacchetti vacanza, automobili, ciclomotori e biciclette, trasferimento proprietà auto e moto, affitto garage, posti auto e noleggio mezzi di trasporto, pedaggi e parchimetri, apparecchi per la telefonia fissa, mobile e telefax, servizi di telefonia fissa, mobile e connessioni internet, tabacchi, abbigliamento e calzature, rasoi elettrici, taglia capelli, phon, articoli per la pulizia e per l’igiene personale, profumi, cosmetici, gioielleria e orologeria, valigie, borse e altri accessori, servizi di parrucchiere, servizi legali e contabili, mobili e articoli per illuminazioni, biancheria e tessuti per la casa, frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, forno, piccoli elettrodomestici per la casa, piatti, stoviglie e utensili per la casa, detergenti e prodotti per la pulizia della casa, carburanti, caffè, bevande gassate, succhi di frutta e bevande analcoliche, liquori, superalcolici, aperitivi alcolici, vini e spumanti -.

Tra le misure di carattere urgente che figurano nella nuova legge inoltre, la possibilità per il Ministero dell’economia e delle finanze di emanare “tutte le disposizioni in materia di giochi pubblici utili al fine di assicurare maggiori entrate, potendo tra l’altro introdurre nuovi giochi, indire nuove lotterie, anche ad estrazione istantanea”, s’apprende dal testo.
 
Alla voce “Riduzione dei costi degli apparati istituzionali” figurano cinque pagine di tagli agli enti locali e giusto qualche riga dedicata ai parlamentari, che si sono limitati a deliberare che “per gli spostamenti in aereo e le missioni legate a ragioni di servizio all’interno dei paesi del Consiglio d’Europa” si volerà in classe economica. Un profondo disagio per la Casta di Montecitorio, che non vuole tagli alla propria elite, semmai ne elabora all’infinito per il Paese. Anzi, il fantomatico taglio ai loro stipendi, introdotto forse un po' per vergogna nei confronti di un paese tassato fino all'osso, prevede una “riduzione delle retribuzioni o indennità di carica superiori a 90 mila euro lordi annui in misura del 10% per la parte eccedente i 90 mila euro”. 
La soppressione delle Province, il dimezzamento di consiglieri e assessori, restringimento dei finanziamenti regionali sono disposizioni che hanno suscitato la durissima reazione delle amministrazioni locali, secondo le quali è impossibile continuare a garantire servizi indispensabili ai cittadini, stando alle condizioni imposte dalla nuova legge 148. Alla faccia del principio di sussidiarietà. “Le nuove misure di austerità – scrive l’agenzia internazionale Moody’s -riducono il budget degli enti locali di 7 miliardi per il 2012-2013, giacché l’obiettivo di pareggio è stato anticipato di un anno, e danno meno tempo per sistemare i bilanci". Effetti negativi sul rating di Regioni, province e comuni: "Misure di rafforzamento delle entrate – spiega Moody’s -, come permettere di controllare i propri livelli di tasse e di controllare gli evasori fiscali sul proprio territorio, compenseranno solo in parte i tagli ai trasferimenti".

Per i lavoratori arriva invece dell’articolo 8, che prevede la possibilità di derogare alle norme stabilite dai contratti nazionali e dallo statuto dei lavoratori, in conformità ad accordi aziendali sottoscritti da rappresentanze sindacali, intese come qualsiasi organizzazione rappresentativa a livello territoriale. “Siamo pronti a ricorrere alla Corte Costituzionale - dichiara in occasione del recente sciopero nazionale Susanna Camusso, segretario Cgil - per cancellare una simile discriminazione, useremo tutte le strade per eliminare questa vergogna". La Camusso esprime contrarietà verso l’intera manovra: ”E’ ingiusta, perché fa pagare i soliti noti, il lavoro pubblico, i pensionati”. Per quanto riguarda il mondo del pubblico impiego, c'è ancora da patire, dopo lo smantellamento dello scorso anno, restrizioni d’organico e tagli per oltre due miliardi l’anno per il biennio della rincorsa al pareggio di bilancio, 2013-2014. Prorogate anche le norme che bloccano le assunzioni fino al 2014.
Si procederà, inoltre, al recupero, entro il 31 dicembre 2011, di quanto ancora dovuto da coloro che non hanno versato le rate concordate per il condono edilizio negli ultimi cinque anni.
 
Non poteva mancare il settore Giustizia, che sembra interessare questo governo come non mai. Si è stabilito il riordino degli uffici giudiziari che porterà al taglio dei “tribunali minori” con il conferimento di una delega al Governo, che agirà seguendo criteri come il numero di abitanti, l'estensione e i carichi di lavoro.
Magistrati ed avvocati non ci stanno, per loro un simile accorpamento è un duro colpo all'apparato giudiziario, affannato da tagli e mancanza di fondi: “La ridefinizione dell'assetto territoriale degli uffici requirenti – hanno dichiarato dall'Associazione Nazionale Magistrati in merito alla ridefinizione territoriale prevista -, anche con l'accorpamento in un unico ufficio di procura della competenza allo svolgimento di funzioni requirenti in più tribunali, è del tutto fuori dal sistema e foriera di gravi disfunzioni sul piano organizzativo”. Sulla riduzione degli uffici giudiziari “non appare razionale escludere dalla possibilità di accorpamento i tribunali con sede nei comuni capoluogo di provincia alla data del 30 giugno 2011 e dunque senza un coordinamento con la contemporanea scelta di soppressione di alcune province e senza tenere in considerazione le caratteristiche dei tribunali presenti” fa notare l'Anm.
Misure d'austerità che faranno penare i cittadini, debitori di un debito da loro mai contratto. Superato il nuovo record di 1.900 miliardi di euro, il debito grava sulle spalle di ogni italiano per oltre 31 mila euro, più del Pil pro capite. Naturalmente, il tasso d'interesse cresce all'aumentare dell'indebitamento.

Eleonora Pochi

22/09/11

6 miliardi tra tagli e tasse per Roma e provincia

La manovra economica prevede lacrime e sangue per la Capitale

Dalle misure previste nella manovra economica spicca l’imponente salasso verso la Capitale e dintorni. I cittadini romani saranno costretti a pagare, nei prossimi quattro anni, oltre 3.650 euro all’anno tra aumento dell’Iva dal 20 al 21 percento, aumento dell’Irpef, blocco dell’aumento degli stipendi per i dipendenti pubblici e tagli ingenti agli enti locali. Previsione, quella resa pubblica dal presidente della Provincia di Roma, studiata in base agli ultimi aggiustamenti economici dettati dal governo e che riserva lacrime e sangue per il territorio: “Un colpo durissimo e drammatico alle famiglie e alle imprese” sottolinea Nicola Zingaretti. Dura reazione anche dall’assessore al bilancio di palazzo Valentini: “Una riduzione degli investimenti a causa della quale il prossimo anno potremmo spendere solo 37 milioni – spiega Antonio Rosati -, con un inevitabile crollo della qualità dell‘edilizia scolastica e della manutenzione stradale”. Non è tutto.

Il taglio agli enti locali, pari a ben  2,6 miliardi di euro, provocherà un’inevitabile indebolimento dei servizi rivolti alla collettività, quali assistenza sanitaria e trasporto pubblico. “Oggi il costo di un biglietto è di un euro, un euro e mezzo – ha commentato il sindaco di Roma, Gianni Alemanno -, un costo sociale assicurato dai trasferimenti che vengono dallo Stato. Se questi finanziamenti vengono tagliati come previsto non saremo più in grado di garantirlo”.

Non bastavano le metrò strapiene, gli autobus cronicamente in ritardo, i treni regionali puntualmente soppressi ad accompagnare le giornate dei cittadini di Roma e dintorni; ora si rischia di dover andare a lavoro in tandem mentre gli impiegati di palazzo Chigi godono ognuno di una costosa e disponibilissima schiera di auto blu a spese dello Stato, ossia degli stessi cittadini ai quali vengono sottratti servizi pubblici di base ed aumentate le tasse. “Il governo sta mettendo pesantemente le mani in tasca ai cittadini – osserva Zingaretti -, ma solo ad alcuni, quelli che le tasse le pagano già e che utilizzano i servizi pubblici, il bus per andare a lavorare o gli ospedali, perché non hanno alternative. E’ uno schifo – conclude il presidente della Provincia di Roma -, una vergogna, che in una situazione del genere il governo si preoccupi di salvaguardare gli stipendi dei parlamentari”. “E io pago” diciamo noi.

Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura