30/09/10

Non basta un mondiale di calcio


Alla cerimonia di chiusura, Mandela è sceso in campo con gli occhi lucidi dall’emozione, per salutare gli 80mila tifosi presenti nel Soccer City Stadium di Johannesburg. Un uomo che ha richiamato l’attenzione al vero Sudafrica. Che non è vuvuzuela è delinquenza, ma la terra dove un popolo intero ha sconfitto l’Apartheid.

Johannesburg, 11 giugno 2010, ore 16.10: fischio d’inizio della FIFA World Cup 2010. Milioni di persone, luci, riflettori e telecamere sintonizzate sui dieci stadi sudafricani, che hanno ospitato le 32 squadre protagoniste di questo campionato. La canzone ufficiale è stata “Waka Waka (This time for Africa)”. Ma è tempo per Africa?
Un mondiale di calcio può cambiare l’Africa? Forse si voleva scimmiottare il mondiale di rugby del 1995, che vide il trionfo del Sudafrica e l’abbattimento dell’apartheid. Il ricordo più bello di questi mondiali, che rimarrà nei cuori di tutti, è stato il sorriso di Nelson Mandela. Dopo la chiusura di Shakira, fuochi d’artificio e festeggiamenti per la vincita della Spagna, Mandela scende in campo, con gli occhi lucidi dall’emozione, per salutare gli 80mila tifosi presenti nel Soccer City Stadium di Johannesburg. Un uomo che ha richiamato l’attenzione al vero. Il Sudafrica non è vuvuzuela e delinquenza, e Mandela ricorda al mondo proprio questo. È il paese che ha sconfitto l’apartheid, un popolo straordinario pieno d’amore e di speranza. Alla resa dei conti è il calcio che ha perso. Si pubblicizzava questo mondiale come fosse l’occasione per riscattare tutti i mali inflitti al Sudafrica, forse perché noi occidentali volevamo metterci un po’ a posto con la coscienza. Pareva quasi che la Fifa si fosse trasformata in Cri!


Diritti umani
Secondo Amnesty International, poco tempo prima dell’inizio del Campionato mondiale di calcio, sono aumentate notevolmente le operazioni di polizia contro venditori ambulanti, senza tetto, rifugiati o migranti che vivono in insediamenti informali. Per mano della polizia sono state effettuate irruzioni, arresti arbitrari, maltrattamenti, estorsioni e distruzioni di baraccopoli. Tutto senza preavviso né predisposizione di un alloggio alternativo adeguato o risarcimento, in completa violazione delle leggi nazionali che proibiscono lo sgombero coatto in qualsiasi circostanza. A questo punto ci si chiede quale sia la carta che ha legittimato e legittima queste operazioni. È il regolamento derivante dalle norme Fifa, istituito per soddisfare i requisiti richiesti dalla Federazione sportiva nelle città sedi dei mondiali. Chi viola un regolamento rischia fino a sei mesi di carcere oppure, nell’ipotesi migliore, una multa di circa 1.100 euro. Gli stessi regolamenti, prevedono l’uso massiccio di risorse per garantire la protezione dei visitatori e si teme di un abuso della forza
contro presunti criminali, in modo non conforme agli standard del diritto umanitario e internazionale. Inoltre l’impiego concentrato delle forze di polizia, riduce e ridurrà di riflesso la sicurezza e l’incolumità dei cittadini sudafricani, specialmente di quelli che vivono nei quartieri più poveri dove la prevenzione del crimine costituisce già una seria sfida. Calato il sipario sui mondiali, sembra che sia in atto una vera e propria fuga di immigrati dal Sudafrica minacciati di violenze xenofobe dagli abitanti del paese. È stato detto loro: “Dovete andarvene immediatamente dopo la Coppa del Mondo” secondo quanto riportano alcuni quotidiani africani. Disoccupazione e disuguaglianze Il Sudafrica presenta un tasso di disoccupazione perennemente alto, una diseguale distribuzione del reddito, con un’elevata concentrazione della ricchezza nelle poche tasche dei più fortunati. Un altro problema strutturale del paese è la carenza di infrastrutture e servizi di base, che porta alla morte sempre più persone. Le spese sostenute dal governo per organizzare la World Cup hanno sicuramente creato alcune opportunità temporanee di lavoro e migliorato il servizio di trasporto pubblico, tuttavia dalle comunità povere continuano a denunciare che la maggioranza dei cittadini è stata ed è totalmente esclusa dai benefici derivanti dall’organizzazione dei Mondiali di calcio di quest’anno. “I requisiti stabiliti dalla normativa Fifa, che prevedono ampie zone di esclusione in cui non sono consentite attività economiche informali, – afferma Amnesty International - sono visti come particolarmente dannosi nel contesto di un paese in cui ampia parte della popolazione basa la propria sopravvivenza sui proventi dell’economia informale”. Nonostante l’impegno del governo sudafricano nella lotta alla povertà e all’Hiv, c’è bisogno della stessa determinazione mostrata nella preparazione dei Mondiali di calcio per superare le difficoltà relative ai trasporti e tutti gli altri ostacoli.

C’è bisogno inoltre di un serio impegno contro il proliferare del traffico di minori (il Sudafrica è una delle mete più ambite per il turismo sessuale). Alcune Ong locali hanno segnalato che in questi ultimi mesi il movimento di ragazzini non accompagnati lungo il confine è notevolmente aumentato. “La frontiera di Ressano Garcia è un ‘colabrodo’ dove ogni giorno i trafficanti portano dal Mozambico in Sudafrica centinaia di bambini e bambine - denunciano le Ong promotrici della campagna ‘Tutti in campo contro il traffico dei bambini’ - l’attrazione per le opportunità offerte dai Mondiali è irresistibile, specie per chi vive in condizioni precarie”. Il Sudafrica ha fatto molti passi in avanti nella legislazione per la difesa dei diritti dei bambini, ma non è ancora stata approvata la legge specifica per la prevenzione e la lotta contro il traffico di esseri umani. Il presidente sudafricano Jacob Zuma ha rilasciato varie dichiarazioni sui rischi di traffico di minori durante la Coppa del Mondo, incitando genitori e tutori a non perdere di vista i bambini durante le lunghe vacanze scolastiche stabilite per il grande evento calcistico. “Le scuole sono state chiuse per ridurre il rischio di traffico – dichiara Joan van Niekerk di Childline South Africa - tuttavia il 70% dei bambini fanno affidamento sui pasti dati a scuola. In Sudafrica ci sono milioni di bambini affamati senza una famiglia alle spalle e i depliant contro il traffico non significano assolutamente niente per chi ha fame. Più importante è lavorare sul campo con interventi di prevenzione del traffico, puntando su istruzione e sviluppo”. A suon di “Waka Waka - This time for Africa” minori, sfollati, poveri ed immigrati si trovano ancora a fare i conti con il lato ignoto di questi mondiali. Non basta di certo una bella canzone e qualche bella pubblicità per cambiare la situazione africana. Conta quello che di vero c’è dietro queste azioni. È davvero tempo per l’Africa?

Eleonora PochiFonte: Solidarietà Internazionale

Il martirio di Gaza - La Freedom Flottilla

Sei navi, 700 persone in viaggio verso Gaza per portare aiuto alla popolazione civile, stretta da un embargo disumano. L’attacco dell’esercito israeliano in acque internazionali. Nove morti (secondo la versione ufficiale). L’Italia vota contro un’inchiesta internazionale voluta dalle Nazioni Unite.


Nel 1947 gli inglesi respingevano la nave “Exodus” carica di 4.500 ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento che cercavano di entrare in Palestina. Sessant’anni dopo vengono a galla i risultati del buon esempio occidentale.
Nella realtà moderna abbiamo lo Stato d’Israele, nato sotto il segno della violenza perpetrata e subita, e poi c’è Hamas che da trent’anni rivendica, con connotazioni religiose, la distruzione di Israele. Tra i due litiganti chi ci rimette è il popolo. In nome di una guerra giusta (considerata tale anche dall’Italia) in risposta ad attacchi terroristici, tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 Israele sferra l’operazione “piombo fuso” su Gaza, provocando 1.400 morti, di cui 900 civili, e più di 9.000 feriti.
Gaza: un territorio sigillato
Oggi la striscia di Gaza è un territorio completamente sigillato, un carcere a cielo aperto. La densità della popolazione è enorme e al momento dell’attacco Gaza era sostanzialmente senza difese. Si possono quindi comprendere le cifre delle vittime innocenti della guerra e le tragedie umane che per anni sono e saranno la conseguenza di questa operazione: una recente indagine internazionale condotta da tre università sembra rivelare l’uso di nuove armi sperimentate a Gaza, che esporrebbero la popolazione al rischio di mutazioni genetiche. Metalli e sostanze cancerogene sono stati individuati nei tessuti di alcune persone ferite durante le operazioni militari israeliane del 2006 e del 2009. Hanno effetti tossici sulle persone e danneggiano il feto o l’embrione nel caso di donne incinte. Inoltre, una delle ricerche condotte rileva la presenza di tossine nei crateri prodotti dai bombardamenti israeliani a Gaza, indicando una contaminazione del suolo che, associata alle precarie condizioni di vita, in particolare nei campi profughi, espone la popolazione al rischio di venire a contatto con sostanze velenose. Ma non finisce qui. È un dato di fatto che la razza umana non conosce limiti.
La nuova strage
Nella notte del 31 maggio 2010 l’esercito israeliano attacca un intero convoglio umanitario di pacifisti, facendone strage. Ong di tutto il mondo, riunite in una coalizione internazionale, hanno organizzato 10mila tonnellate di aiuti umanitari destinati a Gaza, per sopperire all’assurdo embargo imposto da Israele. Un movimento chiamato “Free Gaza”: sei navi, 700 passeggeri, una coalizione internazionale, la “Freedom Flotilla”. Cittadini di diverse nazionalità hanno deciso di agire e imbarcarsi per Gaza per aiutare una popolazione in difficoltà a fronte del fallimento dei governi e degli organismi internazionali. I popoli sono capaci di questo: di pagare con la loro vita per aiutare qualcun altro. La “Mari Marmara”, battente bandiera turca, è stata la nave che ha subìto l’attacco più violento dell’esercito israeliano. Un vero e proprio atto di pirateria, in acque internazionali, che ha provocato nove morti (i testimoni tuttavia dichiarano di aver visto molti corpi gettati in mare, circa una ventina) e numerosi feriti, la maggior parte dei quali di nazionalità turca. La Turchia è rimasta profondamente indignata dall’accaduto. Da parte sua minaccia Israele di riconsiderare i rapporti politici, militari ed economici. Inoltre, giorni fa ha considerato la possibilità di scortare una nuova missione pacifista per Gaza con la flotta turca. Una situazione tesa, anzi tesissima, che evoca l’immagine della Turchia quale scorta di missioni umanitarie, pronta a fare guerra ad Israele. L’odio porta solo odio, nient’altro. Inoltre ha richiamato il proprio ambasciatore in Israele e ha chiesto subito un’urgente riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Paradossale la dichiarazione dell’ambasciatore israeliano negli Usa che ha definito il fatto “pienamente legale, tutt‘altro che disumano e sicuramente responsabile”. In un’intervista rilasciata a Fox News ha aggiunto: “Israele ha agito nel rispetto della legge; ogni Stato ha diritto di difendersi. Per Israele questo diritto è tanto più lecito di fronte alla minaccia terroristica rappresentata da Hamas. Pertanto, sebbene l’atto sia stato condotto in acque internazionali, gode di legittimità”. Oren giustifica con fermezza l’assassinio dei nove operatori umanitari internazionali a bordo della Flottiglia e legittima gli arresti degli attivisti. Si vorrebbe far credere che alle 4.30 del mattino tre corvette, gommoni silenziosi, elicotteri con truppe speciali e uomini rana avvolti in tute nere avessero assaltato la “Mari Marmara” giusto per invitare i passeggeri a non avanzare e si fossero trovati costretti a sparare per legittima difesa. Be’, non crediamoci! L’autopsia sui corpi delle vittime turche rileva una morte per colpo d’arma da fuoco ravvicinato, alla testa. Esecuzione più che legittima difesa, direi.
Il “no” dell’Italia all’inchiesta internazionale
E mentre il premier israeliano Netanyahu afferma: “Sono orgoglioso dei miei soldati”, il presidente palestinese, Abu Mazen, condanna il blitz israeliano come atto esplicito di “terrorismo di Stato”. Pochi giorni fa il Consiglio dei diritti dell’Uomo dell’Onu ha adottato a Ginevra una risoluzione per una “missione d’inchiesta internazionale”, con lo scopo di indagare sulle violazioni di leggi internazionali. La risoluzione però non è stata approvata all’unanimità. Oltre la scontata contrarietà israeliana: “Non abbiamo bisogno di alcun aiuto internazionale”, proclamata dal ministro Daniel Herhkowitz, ce ne sono altre. I tre “No” sono stati pronunciati da Italia, Usa e Olanda. Scandalose le rispettive motivazioni: “Si ritiene Israele uno Stato democratico e perfettamente in grado di condurre un‘inchiesta credibile e indipendente, il che non significa necessariamente internazionale” (Mauro Massari - portavoce Farnesina); “La risoluzione crea una missione internazionale prima di dare la possibilità ad un governo responsabile di indagare esso stesso su questo incidente e, di conseguenza, rischia di politicizzare ancora di più una situazione già fragile”(Eileen Donahoe - ambasciatrice americana). Bisogna ricordare ai paesi contrari che nel caso di un’indagine interna, le uniche fonti disponibili per ricostruire il tragico assalto e indagare sarebbero israeliane. Le stesse fonti che due ore prima dell’attacco hanno messo fuori uso i telefoni cellulari dei pacifisti (circa 700). Da quel momento, sino al rilascio di alcuni pacifisti arrestati, le autorità non hanno fatto trapelare neanche un filo di testimonianza. Anzi, alcuni media e istituzioni israeliane hanno dichiarato, poche ore dopo l’attacco, che i “pacifisti” sarebbero stati armati e avrebbero reagito violentemente all’invito israeliano di non avanzare per Gaza, ma di attraccare al porto di Ashdod. Pochi giorni dopo la strage s’intravede dalla costa palestinese l’ultima nave della flottiglia, partita da Cipro in ritardo, l’olandese “Rachel Corrie” che cerca di forzare il blocco e approdare a Gaza, malgrado le pesanti intimidazioni di istituzioni e forze armate israeliane. Dopo l’oscuramento della radio e del sistema radar di bordo, l’esercito passa di nuovo all’azione forzata, ma stavolta senza spargimenti di sangue. La nave è stata intercettata da navi da guerra e costretta sotto scorta a dirigersi verso il porto di Ashdod. I 19 passeggeri della nave sono stati tutti espulsi.
I racconti dei superstiti
I primi operatori tornati a casa hanno cominciato a raccontare la loro odissea. Alcuni avrebbero affermato di essere stati storditi con i “Teasers”, ossia apparecchi a scossa elettrica usati dalla polizia. Daniele Luppichini, italiano rimpatriato, racconta: “Io non ero presente sulla Mari Marmara, però quello che ho sentito quando siamo stati condotti in carcere è drammatico”. In particolare l’attivista italiano cita la testimonianza di Jerrie Campbell, un’infermiera australiana che si trovava a bordo della nave turca. “Mi ha riferito di aver contato tra i 15 e i 20 cadaveri e di avere anche visto gettare in acqua diversi corpi. E anche gli altri passeggeri della Mari Marmara raccontavano le stesse, identiche cose”. Prosegue: “I militari ci hanno sequestrato tutto quello che sarebbe potuto servire per raccontare quanto accaduto, dalle telecamere ai bloc-notes. È evidente che Israele non vuole far conoscere la verità al mondo – dice –. Perché non ci restituiscono il materiale sequestrato? Perché non sono rese note le liste complete degli attivisti presenti sulle navi attaccate? Se davvero non hanno niente da nascondere, perché lo fanno?”. Siamo davvero preoccupati, quindi, del “No” pronunciato. Auspichiamo che l’Italia riprenda il prima possibile il suo ruolo di paese democratico e portatore di pace e dialogo a livello internazionale. Dopo il “no” per il rapporto Goldstone, il “no” per un’inchiesta internazionale, anche noi diciamo “no”, ma inteso come rifiuto all’atteggiamento assunto dal nostro paese. Ci dissociamo. Tutti dovremmo dissociarci: i governi luccicano d’ipocrisia mentre operatori umanitari si fanno ammazzare per aiutare uomini, donne e bambini oppressi da anni, i quali non arrivano sugli schermi delle nostre case perché è scomodo far sapere al mondo di crimini così ingiusti. Abbiamo avuto l’occasione di vedere filmati dei bombardamenti di“Piombo Fuso” su Gaza, che non sono passati nei telegiornali e di certo non per la crudezza delle immagini... Speravamo che dopo la seconda guerra mondiale, per lo meno gli europei avessero capito che l’odio distrugge e non serve. In quelle immagini traspariva odio puro. Guardando alla situazione attuale, ci si chiede davvero come può nel XXI secolo uno Stato democratico inviare un commando militare per uccidere persone disarmate a bordo di navi civili cariche di aiuti umanitari in acque internazionali? La maggioranza dei beni a bordo di alcune imbarcazioni della flottiglia sono stati messi al bando dallo Stato ebraico e, nonostante l’Onu abbia dichiarato che il blitz sia stato diretta conseguenza del blocco, l’embargo di Gaza continua. Non passano neanche quei materiali da costruzione necessari per rimettere in funzione il sistema idrico, la rete fognaria e la centrale elettrica di Gaza. Neanche chi è malato e bisognoso di cure. In tutto questo, il ministro Ronchi s’affretta a dichiarare: “L‘Italia è con lo Stato ebraico” avvilito, dice, da “manifestazioni d’estrema sinistra di protesta offensiva”. Ancora una volta si strumentalizza l’instrumentalizzabile. Sempre per cercare di dividere, creare discrepanze, indifferenza, paura e ignoranza. Non c’è da dibattere a mio avviso. Sarebbe opportuno un atteggiamento unanime di sdegno della comunità internazionale di fronte a fatti così gravi. Invece pare sia tutto concesso, nonostante la palese trasgressione di tutti i trattati internazionali, contro i diritti umani, contro ogni etica, contro la democrazia e il rispetto umano. Uno degli ultimi attivisti rimpatriati ha detto: “Abbiamo fallito la nostra missione. Ma ora vogliamo che il mondo intero, che tutti i cittadini si alzino e parlino apertamente. Stop all’embargo, stop all’assedio”. I cittadini greci a fronte delle riforme strutturali gridavano “Peoples of Europe rise up”. Riprendendo il loro slogan, credo sia il caso di dire: “Peoples of the world rise up”. Credo sia arrivata l’ora di spegnere i reality show ed aprire gli occhi sul mondo, quello vero.


Fonte: Solidarietà Internazionale - Eleonora P.

Bambini senza voce

Lo sfruttamento minorile impiega bambini per lavoro nero, prostituzione, spaccio di droga, mafie, servaggio, adozioni illegali, traffico di organi, guerra, abusi sessuali. Anche l’Italia non ne è indenne


Chi è un bambino e che ruolo ha nella società?
Il mondo intero dovrebbe chiederselo, perché è evidente che non sa più investire sulla sua maggiore risorsa, i bambini, o forse fa finta di nulla mentre l’infanzia viene pian piano annientata. Lo scandalo della violazione dei diritti fondamentali dei bambini rappresenta  un vergognoso comune denominatore di tutte le società, povere e ricche, dai piccoli orfani haitiani, ai bambini colpiti da mille forme di violenza e abusi nei paesi industrializzati.
I soldatini di piombo
Più di due milioni di bambini ogni anno sono vittime di traffico a scopo di sfruttamento. Di questi, circa 250mila sono utilizzati nei conflitti armati. Tutti i bambini soldato porteranno nella loro vita ferite psicologiche difficili da rimarginare. Nel 1997 Susan, una ragazzina ugandese, dichiarò all’Human Right Watch: “Un ragazzo cercò di scappare dai ribelli, ma lo presero. Le sue mani erano legate e loro ci chiesero di ucciderlo. Mi sentii male. Lo conoscevo da prima. Venivamo dallo stesso villaggio. Rifiutai di ucciderlo e mi dissero che mi avrebbero sparato. Mi puntarono contro un fucile, così dovetti farlo. Il ragazzo mi chiese: ‘Perché lo fai?’, risposi che non avevo scelta. Dopo che lo uccidemmo, ci fecero bagnare le braccia nel suo sangue. Dissero che dovevamo farlo, così non avremmo più tentato di scappare. Ancora sogno quel ragazzo del mio villaggio che ho ucciso. Lo vedo nei miei sogni e lui mi parla e dice che l’ho ucciso per niente. E io piango”. A parlare è Susan, 16 anni, rapita dall’LRA (Lord’s Resistance Army, organizzazione guerrigliera ugandese). L’essere stati testimoni, o l’aver essi stessi commesso atrocità, avrà serie conseguenze non solo nella loro vita, ma nell’intero tessuto sociale in cui sono inseriti. Lo sfruttamento minorile impiega bambini per lavoro nero, prostituzione, spaccio di droga, mafie, servaggio, adozioni illegali, traffico di organi, guerra, abusi sessuali, ecc. Ogni giorno in Sudafrica sono 30mila i bambini in vendita, acquistabili dai gestori di bordello per neanche 100 euro. Le loro prestazioni hanno un valore medio di 3 euro.
Convenzione si, Convenzione no?
Lo scorso anno la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ha compiuto vent’anni. È il trattato più ratificato al mondo: sono 193 gli Stati firmatari (Stati Uniti e Somalia esclusi). “Dal 1990 ad oggi si sono registrati progressi notevoli negli ambiti della sopravvivenza dell’infanzia: il tasso di mortalità sotto i cinque anni è diminuito da 90 a 65 decessi su 1.000 nati vivi – dichiara l’Unicef - tuttavia i risultati non ci devono illudere. Si sarebbero fatti maggiori progressi se ai bambini, le bambine e gli adolescenti fosse stata data priorità nelle politiche e nei bilanci, oltre che nelle dichiarazioni d’intenti”. Se i governi non s’impegnano attivamente con politiche adeguate, la convenzione rimarrà un insieme di solenni principi. Basti pensare che in Iran, nonostante il paese abbia ratificato la Convenzione sui diritti dell’infanzia, s’impiccano bambini per reati quasi inesistenti: presunta omosessualità, per esempio. Dal gennaio 1990 al dicembre 2007, secondo Amnesty International, il paese che ha giustiziato a morte più minori è l’Iran con 28 condanne, sorprendentemente seguito dai “democratici e civili” Stati Uniti d’America, con 19 sentenze a morte di minori. Il nostro Bel Paese non condanna a morte, ma fa la sua parte. L’Italia è al primo posto in Europa per domanda all’estero di sesso con minori. Sono circa 80mila i maschi italiani che ogni anno si recano in paesi stranieri — prima meta il Brasile — con questa finalità.
La situazione italiana
Chi credeva che l’Italia fosse un paese a misura di bambino si sbagliava. Ci sono dati statistici che dimostrano l’insuccesso della panacea. I casi d’abuso e maltrattamento di minori sono in costante aumento. La maggior parte degli abusi avviene nelle mura domestiche: 2.500 sono i casi d’abuso denunciati alla procura dagli ospedali, ed il 56% delle fratture riportate da piccoli con meno di un anno d’età non è accidentale. Per quanto riguarda la prevenzione del maltrattamento, l’Italia non ha ancora recepito la raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dello studio delle Nazioni Unite sulla violenza sui bambini, che prevede l’adozione di un piano nazionale di azione per prevenirla. Chi di voi non ricorda le immagini agghiaccianti delle maestre dell’asilo “Cip Ciop”? I piccoli erano picchiati, costretti a stare immobili, in silenzio, e addirittura a mangiare il cibo vomitato. Non è da meno il caso più recente dell’asilo di Ferrara: un bimbo di sei anni lasciato nudo in mezzo alla classe, colpito dai compagni come punizione alla sua marcata vivacità. E l’asilo di Rignano Flaminio? Quanti casi d’abusi soffocati silenziosamente dalla paura di raccontare? Troppi.
I diritti dei bambini
Per capire tutto questo è fondamentale analizzare il ruolo che un bambino riveste in una società moderna. Cominciamo col dire che i bambini non fanno parte dell’elettorato, e di conseguenza ai governi poco importa di soddisfare i loro interessi perché il non soddisfacimento degli interessi dell’infanzia non comporta loro una perdita di voti. Supponiamo che un governo si trovi a decidere se finanziare un programma d’assistenza per il recupero di minori abusati o abbellire le città con fiorellini colorati. Cosa sceglie? Opta, nella maggior parte dei casi, per le belle piantine e credo sia superfluo spiegare il perché. I minori in condizione di povertà relativa sono in Italia 1.728.000, dei quali il 61,2% ha meno di undici anni, e per il 72% si concentrano nel Mezzogiorno. Nel nostro paese mancano fondamentali misure di attuazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia (CRC), come ad esempio il Piano Nazionale dell’infanzia. Sia la CRC che la legge 451/1997 prevedono la programmazione di linee strategiche fondamentali che il governo dovrebbe perseguire al fine di sviluppare una politica per l’infanzia e l’adolescenza in linea con i principi internazionali. Molti di voi non sapevano dell’esistenza del suddetto documento? Don’t be scared, non ne sa granchè neanche la nostra classe dirigente. Dal 2004, nonostante le raccomandazioni dal comitato Onu, l’Italia è priva del Piano Nazionale dell’Infanzia. Il Cipsi ha sottoscritto il documento “Batti il Cinque!” e aderito alla campagna per sollecitare il governo affinché si arrivi in breve tempo all’approvazione del nuovo Piano nazionale Infanzia e Adolescenza, affinché i diritti e la voce dei bambini assumano quel ruolo di rilievo che dovrebbero avere. “Sono a rischio di discriminazione particolari gruppi di minori, come i minori migranti e i minori residenti in regioni meno ricche. Non adeguatamente tutelato è il diritto alla partecipazione dei bambini e l’ascolto in particolare nell’ambito dei procedimenti giudiziari dove i minori sono spesso coinvolti”, spiega il rapporto di monitoraggio sulla condizione dell’infanzia del gruppo CRC, un network di 86 Ong.
E i minori stranieri?
La discriminazione dei minori stranieri in Italia è una delle conseguenze della guerra agli extracomunitari adulti scaturita da un latente sentimento razzista annidato tanto nella società civile, quanto tra i politicanti. La tendenza all’individualismo sarà accentuata dalla crisi, come dice qualcuno, ma è alimentata pure da un’informazione insufficiente e distorta, e da una politica della paura. Alla domanda “Perché tutto questo?” Mauro Borghenzio, Lega Nord, risponde: “I padri devono capire che se vengono a procreare qui da noi, gli effetti ricadono sui figli”. Bisognerebbe ricordarsi che fino a cinquant’anni fa eravamo noi gli immigrati che, in cerca di speranze, lasciavano la loro terra e sbarcavano in quella degli “altri”. La storia ci insegna che odio e non tolleranza portano allo sfacelo. Gli italiani dovrebbero ricordare bene lo sfacelo. A qualcuno però sfugge. A Cernusco sul Naviglio, in provincia di Milano, una bambina nigeriana di tredici mesi è stata lasciata morire in ospedale perché non aveva la tessera sanitaria. Ho sempre pensato che tutti i medici avessero la missione di salvare vite umane, invece c’è chi salva solo gli italiani. E così, Rachel muore dopo un’agonia di 28 ore. I genitori la portano al pronto soccorso perché accusa dolori fortissimi allo stomaco ed è in preda a violenti attacchi di vomito, ma una volta arrivati non vogliono né visitarla né tanto meno ricoverarla. “Non ha la tessera sanitaria” dicono. Il padre si agita ed arrivano i carabinieri che convincono i medici a ricoverare la bimba. Nessuno la visita fino al pomeriggio del giorno seguente. Rachel non si sveglierà mai dal sonno notturno. È vergognoso che accadano queste cose. Quale mondo si lascia all’infanzia?
Togli un posto a tavola che c’è un nemico in più
Il mese scorso in una scuola di Montecchio Maggiore (Vicenza) per 9 bimbi, 7 italiani e 2 stranieri, la mensa passa solo pane e acqua perché i genitori non hanno versato la retta. Un bimbo con primo, secondo e contorno seduto vicino all’altro col panino e una bottiglietta d’acqua. Tra i bambini dovrebbe sussistere un ambiente il più possibile paritario per non generare discriminazioni, ma non tutti la pensano così. Milena Cecchetto, sindaco leghista di Montecchio Maggiore, ha commentato: “Le regole sono regole per tutti e vanno rispettate. Il mondo non può essere dei furbi”. I bambini non sono furbi, ma innocenti, e in quanto tali andrebbero lasciati fuori dalla politica. Ma anche su questo, ahimè, non tutti la pensano così. Molte sono state le reazioni alla vicenda: dalla Caritas ai partiti politici, alle associazioni che chiamano alla mobilitazione “per una vicenda che viola la Costituzione e la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia”, c’è chi chiede lo scioglimento dell’amministrazione comunale, oppure una settimana a pane e acqua per il sindaco come punizione simbolica.
La vicenda di Adro
Stessa storia, anzi peggio, ad Adro, un paesino di oltre seimila abitanti in provincia di Brescia. Qui il sindaco aveva deciso di escludere dal servizio mensa di una scuola elementare 24 bambini (la maggior parte stranieri), le cui famiglie non avevano pagato la retta. Come la manna dal cielo è arrivato al municipio di Adro, accompagnato da una lettera, un assegno di 10mila euro spedito da un generoso imprenditore bresciano per saldare il debito contratto dalle famiglie in questione. Il paradosso è che contro la buona azione del nobil-cittadino è insorto un paese intero: “O pagano tutti la mensa, oppure tutti non la pagheranno!”. Pubblichiamo a seguire alcuni stralci della lettera scritta da Silvano Lancini (il caso ha voluto che l’imprenditore e il sindaco di Adro siano omonimi). “Nemmeno le bestie – replica Ousmane Condè, originario della Guinea, cittadino italiano da pochi mesi - si comportano così e affamano i loro cuccioli”. I cittadini di Adro hanno reso un’immagine dell’Italia che neanche il bicarbonato mi ha fatto digerire. Fomentati dal rispettivo sindaco, fieri della loro intolleranza, sembrava non importasse loro che si parlasse di dar da mangiare a dei bambini un tozzo di pane; erano accecati da un inspiegabile sentimento ripulsivo. Penso ai 9 bambini dalla mensa di Montecchio e ai compagni seduti vicino che, senza se e senza ma, offrivano loro forchettate di pasta. È proprio questo che noi grandi dobbiamo imparare dai bambini.


Eleonora Pochi


“Tutti i grandi sono stati piccoli, ma pochi di essi se ne ricordano”
 (Il piccolo principe di Antonine-Marie-Roger de Saint-Exupèry)


Lezioni di Clandestinità

L’Italia di quelli che manifestano indignazione...

In Piazza Montecitorio, il 1° marzo, si è tenuta una “Lezione di clandestinità” alla quale hanno preso parte studenti italiani e stranieri. Hanno ascoltato seduti in silenzio qualcosa che non si apprende tra i banchi: la lezione di chi lotta ogni giorno per la difesa dei propri diritti.

“Quanti esami ti mancano alla laurea?” - Quattro - “Ancora? Sei fuoricorso!” e come direbbe qualcuno in merito, “Sono bamboccioni che si adagiano sugli allori”. Già. In questo paese se sei fuoricorso non ti spetta alcuna borsa di studio, aumentano le tasse e diminuiscono i crediti riconosciuti per la formulazione del voto di laurea.
Si può anche pensare che sia giusto premiare i più studiosi e meritevoli, chi riesce a laurearsi nei tempi previsti.
L’anomalia italiana
Ma in realtà, qui non si sta parlando di meritocrazia, bensì di anomalia. Fuoricorso è chi lavora tutto il giorno, chi non si può ammalare mai tra lavoretti sottopagati e tirocini non retribuiti, chi passa notti intere sui libri, chi salta il pranzo perché altrimenti non arriva in tempo alla lezione, chi studia in treno e, nonostante tutto questo, sostiene undici esami l’anno. Su un campione di duecento studenti universitari, più della metà sono fuoricorso. A Lor Signori sfugge un concetto fondamentale: non si tratta di secchioni Vs. fannulloni, ma semplicemente di ragazzi con differenti situazioni socio-economiche alle spalle. Insomma, oltre i fuoricorso descritti prima, c’è chi può permettersi il lusso di non lavorare perché alle rate dell’università e all’affitto ci pensa papino. È libero quindi di passare la giornata tra lezioni, chiacchiere, pranzo con gli amici, biblioteca e passeggiata con aperitivo prima di tornare a casa. Strano, ma alla luce di questo viene quasi da pensare che chi si applichi di più siano i fuoricorso. D’altra parte, in Italia, le parti disagiate sono destinate alla cattiva sorte. Nel frattempo i baroni pullulano indisturbati nelle Università, così che cattedre e poltrone scivolano tra parenti, amici e conoscenti. Ma l’Italietta da maccheroni e mandolino riserva altre mille sorprese. Ad esempio, perché una persona che studia a Brescia sente la necessità di sostenere l’esame di abilitazione all’albo degli avvocati a Reggio Calabria? Considerando che furono ammessi nel 2001 il 93% dei partecipanti alla prova orale, la risposta la riesco a dare senza enormi sforzi riflessivi.
“Bamboccioni”
Nel frattempo i ragazzi che realmente si impegnano per superare gli esami sono perennemente denigrati da Lor Signori: “Basta bamboccioni! Tutti fuori di casa a 18 anni” - recita il ministro Brunetta. In pratica, come se i giovani italiani fossero una massa di tonti e mammoni. In Italia sono milioni i bamboccioni che desiderano arduamente una propria indipendenza. Se solo avessero un lavoro sicuro, una qualche forma di assistenza, una possibilità reale di riuscire a pagare un affitto o un mutuo, allora avrebbero un “senso” le parole di Brunetta. Sarebbe opportuno, quindi, che il ministro sapesse che a noi giovani costretti nelle mura domestiche, non piace rimanere confinati a casa dei genitori, ma non abbiamo altra scelta in questo paese. Era dagli anni '60/70 che la gente non scendeva così massicciamente in piazza per manifestare il proprio dissenso. Ricordo, in particolar modo, il grande sciopero del 30 ottobre 2008: cinque sigle sindacali della scuola decisero di promuovere una forte mobilitazione di tutto il personale per uno sciopero generale nazionale al quale aderirono quasi la totalità delle organizzazioni studentesche, universitari, genitori, italiani all’estero, associazioni e coordinamenti. Aderirono circa 670.000 lavoratori della scuola (2 docenti su 3) e il 90% delle scuole si fermò: in un paese normale un ministro dovrebbe interrogarsi sugli errori commessi, davanti un così diffuso dissenso. E quando milioni di studenti aderiscono allo sciopero, forse non saranno tutti “male informati”, come dice la ministra.
I manganelli contro gli studenti
Era il 18 marzo del 2009, circa un anno fa, quando lo Stato soffocò la libertà di sciopero e d’espressione di centinaia di studenti a suon di manganelli. Era stato indetto sciopero dalla Cgil, così studenti universitari, ricercatori e lavoratori precari degli atenei di tutta Italia, da Torino a Palermo decisero di scendere in piazza. Mi trovavo a "La Sapienza" di Roma, dove in più di trecento eravamo riuniti a Piazzale Aldo Moro, pronti a sfilare in corteo fino al ministero dell’Economia per manifestare il nostro dissenso a fianco della Cgil contro i tagli di otto miliardi di euro alla scuola pubblica e all’istruzione voluti dal governo con la legge 133. Un infinito cordone di polizia antisommossa faceva da cornice al piazzale, non c’era permesso continuare a sfilare in corteo secondo le disposizioni, concordate pochi giorni prima, del protocollo di restrizione dei percorsi dei cortei a Roma. Si presero quindi la libertà di caricare ragazzi e ragazze molto duramente per costringerli a rientrare nella città universitaria. Molti studenti hanno riportato ferite alle spalle, alle braccia e contusioni. L’indignazione dilagò, italiani o stranieri non c’era differenza “Vergogna!” - Gridavamo tutti. “Sono dei guerriglieri anzi, non hanno quella dignità, sono dei ragazzotti!”.Studenti etichettati come bamboccioni, guerriglieri, ragazzotti e ancora “estremisti di sinistra” dal sindaco Alemanno, “gente proveniente dai centri sociali” dalla Gelmini e “facinorosi” da Berlusconi. Ce ne sarebbero molte altre, ma credo bastino queste…
I tagli della Gelmini
Tra manifestazioni, scioperi, scontri e dichiarazioni di sdegno, la Gelmini porta avanti il suo operato. A causa della riforma, nel 2011 i tagli avranno creato 131.900 nuovi disoccupati, il 15,66% degli insegnanti italiani, a fronte di un aumento complessivo degli alunni, pari a 37.441 nel 2009. L’unione degli Studenti ha dichiarato in merito: “Ciò comporterà l’eliminazione di materie fondamentali in molti indirizzi, quali la storia dell’arte, il diritto, la geografia, la chimica, la biologia; riduzione delle ore a disposizione di materie utili non solo all’apprendimento di conoscenze umanistiche e letterarie, ma anche alla capacità di elaborazione critica. Una scuola che viene fortemente indebolita nella sua missione fondamentale e cioè garantire a tutti, indipendentemente dalle condizioni di partenza, un reale accesso alla conoscenza”. D’altronde un popolo d’ignoranti si strumentalizza più facilmente. Gli Atenei si troveranno costretti ad aumentare le tasse e ridurre l’offerta formativa a fronte del taglio di 1,5 miliardi al Fondo di Finanziamento Ordinario per le università previsto per i prossimi anni. La riduzione del Turn Over (limitato ad un 20%), inoltre provocherà la cosiddetta “fuga dei cervelli” per generazioni di studiosi scientifici, dottorandi, aspiranti ricercatori, che intravedono nel loro paese solo una lugubre precarietà. In proposito, una recente ricerca dell’Ocse, “A family Affair”, indica l’Italia come ultimo paese europeo per mobilità sociale. Nel nostro paese il futuro di un giovane è legato alle condizioni sociali dei genitori: se il padre è un dottore e ha un buon salario, nel 50% dei casi il figlio vivrà la medesima condizione; se invece il padre è un diplomato ed ha un salario basso, il figlio difficilmente conseguirà una laurea che gli aprirà le porte dell’emancipazione sociale. L’Italia non si muove. Anzi sì, ma a retromarcia… Anche per la scuola primaria non c’è stato scampo. Mi chiedo se in un’era dove i bambini usano internet, conoscono più lingue, vivono quotidianamente a contatto con diverse culture, sia adeguato ritornare al maestro unico, che conosce poco di tutto e perciò non insegna nulla.
Gli alunni stranieri
Ma soprattutto sarebbe più interessante capire il vero senso delle “classi-ponte” proposte dalla mozione dell’On. Cota (Lega Nord): “L’elevata presenza di alunni stranieri determina oggettive difficoltà di insegnamento e apprendimento ed una penalizzante riduzione dell’offerta didattica”. Si sente l’odore insolente del razzismo e dell’apartheid in queste parole, oltre che essere anticostituzionali. Morale della favola, per ingraziarsi la Lega, il ministro Gelmini ha annunciato che dal prossimo settembre ci sarà un tetto pari al 30% di alunni stranieri per classe. Limite di iscritti alle prime classi di elementari, medie e superiori. È il punto saliente della circolare ministeriale n. 2/2010 dell’8 gennaio che il ministero dell’Istruzione ha inviato a tutte le scuole italiane, contenente “Indicazioni e raccomandazioni per l’integrazione di alunni con cittadinanza non italiana”. Più che integrazione direi “work in progress” per l’innalzamento di muri razziali. Nel frattempo, gli stranieri iscritti alle nostre università sono circa diecimila. Qualcuno direbbe: “Strano, tra il fare i delinquenti e rubare il lavoro agli italiani, trovano anche il tempo di studiare?”. Nella sola università "La Sapienza" gli iscritti stranieri all’a.a. 2008/2009 sono stati 5.852, di cui gran parte albanesi, rumeni e cinesi. Ebbene sì. Acculturato e pensante, ecco il prototipo del “clandestino” che neanche sfiora i teleschermi, a cui non viene data voce. Sarà forse perché fa più paura del delinquente?
Una lezione di clandestinità
È il 1° marzo 2010. Quasi 5 milioni di immigrati che vivono in Italia scendono in piazza accompagnati da molti italiani. La “rivoluzione in giallo” (dal colore ufficiale della giornata) è arrivata dalla Francia e rimbalzata in Italia. Cinquantamila le adesioni su Facebook, sessanta comitati locali, tante le organizzazioni coinvolte: Amnesty, Arci, Acli, Solidarietà e Cooperazione – Cipsi, Legambiente, Emergency, Amref, Cobas, Fiom, Unione degli Studenti. Per la prima volta immigrati e italiani insieme per dire “NO” al razzismo e alla discriminazione dei più deboli. In Piazza Montecitorio si è tenuta una “Lezione di clandestinità” alla quale hanno preso parte studenti italiani e stranieri. Hanno ascoltato seduti in silenzio qualcosa che non si apprende tra i banchi: la lezione di chi lotta ogni giorno per la difesa dei propri diritti, continuamente calpestati, storie di esseri umani che fuggono dalla guerra, di chi raggiunge l’Italia con la speranza di una vita dignitosa. Sono intervenuti scrittori migranti, lavoratori di Rosarno, afgani richiedenti asilo e molti altri. Anche alcuni docenti universitari hanno aderito all’iniziativa, diffondendo tra gli alunni il caso di Rosarno e rendendo loro noto il comunicato presentato dall’assemblea dei lavoratori di Rosarno a Roma: “I mandarini e le olive non piovono dal cielo”.


Fonte: Solidarietà Internazionale - Eleonora P.

Palestina: Pietre per la pace

“Con la nostra attività riportiamo in vita i centri palestinesi storici distrutti o degradati e, nello stesso tempo, i giovani sono di nuovo motivati a vivere nei centri e nei villaggi, in precedenza abbandonati poiché privi di opportunità”. Suad Amiry


Come un fiore sbocciato nel deserto, dal 1991 il Riwaq Centre for Architectural Conservation opera in Palestina. “Con la nostra attività riportiamo in vita i centri storici distrutti o degradati e nello stesso tempo i giovani sono di nuovo motivati a vivere nei centri e nei villaggi, in precedenza abbandonati poiché privi di opportunità”.
Chi parla è Suad Amiry, architetta e scrittrice. L’abbiamo incontrata a Roma in occasione della presentazione dell’ultimo progetto della Ong palestinese Riwaq, da lei diretta. Ha scritto tra l’altro i libri “Sharon e mia suocera” e “Murad Murad”, ma questa è la sua prima volta in veste di architetto. Il significato intrinseco dell’azione intrapresa dal centro è la costruzione (oltre che di edifici) di una cultura di pace e di risoluzione pacifica dei conflitti attraverso un processo d’integrazione delle popolazioni dei vari villaggi.
Lavoro per giovani palestinesi
L’iniziativa del Riwaq è portata avanti da tempo, ma c’è bisogno di nuovi finanziatori, di nuove partnership. E Luisa Morgantini propone un gemellaggio italiano con cinque villaggi palestinesi, nella speranza che l’Italia faccia la sua parte. Per creare posti di lavoro, innovazione, formazione professionale, edifici abitabili, scuole, centri ricreativi, per garantire un futuro ai giovani locali, che lavoreranno per la realizzazione delle opere, e non professionisti inviati da paesi esteri. Suad Amiry pone l’accento sull’essenziale connessione tra economia e sviluppo, e lo fa ribadendo l’importanza dell’impiego da parte del centro di forza lavoro locale. “Si combatte in maniera efficace l’enorme piaga della disoccupazione palestinese”. “Mi rivolgo all’Italia – dice Suad – perché è un paese ricco di storia, che intende il significato di conservazione come mezzo per non cancellare l’eredità storica e culturale”. La differenza tra Palestina e Italia sta nel fatto che la prima rende il patrimonio culturale un vero strumento per l’avanzamento della società. L’attività del Riwaq è purtroppo ostacolata e rallentata dalla mancanza di leggi a tutela del patrimonio culturale. Accanto alla questione legale s’impone la questione sulla proprietà, e non in materia di diritti, ma sulla reperibilità dei proprietari. Costoro sono, per la quasi totalità, emigrati in America o in Kuwait. Bisogna tener presente che a causa dell’occupazione israeliana, inoltre, le autorità palestinesi controllano solamente il 12% del territorio della West Bank. I palestinesi sono costretti a costruire abitazioni solamente in quest’area circoscritta e molto spesso vengono abbattuti edifici storici per costruire abitazioni. I siti storici che il Riwaq sta cercando di recuperare rientrano proprio in questo 12% .
Il problema “mobilità”
La mobilità è un altro tasto dolente, a causa dei numerosissimi posti di blocco di autorità palestinesi ed israeliane che rendono difficili gli spostamenti tra un villaggio e l‘altro, soprattutto dopo che nel 2000 Sharon decise che i palestinesi non potevano più lavorare in Israele. Questa decisione comportò la perdita del posto di lavoro per duecentomila palestinesi. Tra il 1997 e il 2007 Riwaq ha elaborato il Registro nazionale di edifici storici su territorio palestinese dal quale risultano identificati 50.000 edifici storici tra West Bank e Gaza. Dopo aver svolto quest’inchiesta, si è pensato al progetto “Job Creation trought Conservation”, che coinvolge la popolazione locale affinché partecipi attivamente ai lavori, e decida quale attività svolgere all’interno degli edifici recuperati attraverso assemblee ed incontri in cui scambiare e proporre iniziative ed idee.
Il recupero degli stabili
Per la realizzazione del piano è necessario che il Riwaq contatti il proprietario dell’immobile per proporre un’azione di recupero e conservazione dello stabile, nel caso egli accettasse, l’incarico del centro è di svolgere i lavori in circa tre mesi. Al termine della ristrutturazione lo stabile potrà essere utilizzato dalle Ong locali o altre associazioni che altrimenti non saprebbero dove operare. La soddisfazione è bilaterale: il proprietario vedrà il suo immobile rivalutato grazie all’operato del Riwaq e la Ong troverà una sede per operare a titolo gratuito per ben quindici anni. Al termine di questo periodo il proprietario e la Ong devono trovare un accordo e stipulare un contratto d’affitto. La prima fase operativa del piano è il recupero del locale da parte del Riwaq, che come detto, forma ed assume manodopera locale. Una volta terminati i lavori, la comunità utilizza la struttura in base alle proprie esigenze (associazioni culturali, sedi operative per ong locali, associazioni femminili o per l’infanzia, sedi di progetti d’arte o musicali) e grazie al Riwaq può interagire e collaborare con gli altri villaggi per cooperare tra loro. Nel 2006 il Riwaq ha vinto il premio Dubai International Award for best practices rilasciato dall’Onu per il programma “Job Creation trought Conservation”. Il bilancio è più che positivo. Sono 85 gli edifici rinnovati, 56 le comunità coinvolte in 81 villaggi e 25 città nel progetto, per un totale di 140.400 giornate lavorative retribuite ed un costo di $ 4.4022.000. Praticamente con $ 100 al giorno venivano retribuiti tre lavoratori.
I beni culturali
Da circa tre anni, il Riwaq sta lavorando ad un nuova iniziativa che ingloba 50 villaggi. In base all’inchiesta terminata nel 2007 e grazie ad approfondite analisi, Riwaq ha constatato che proteggendo il patrimonio storico di questi cinquanta villaggi, si conserva il 50% dei beni culturali palestinesi. Al di là del recupero strutturale, la vera sfida che si pone il Riwaq è la riabilitazione dei centri storici dei villaggi intesa come un ritorno alla vita. Il centro studia su come riportare i giovani in questi vecchi villaggi, abitati solo da anziani e poveri, e come migliorare le condizioni di vita dell’intera comunità. “Per questo - afferma Suad Amiry - possiamo dire che Riwaq opera a livello pubblico, per permettere alle comunità l’uso di un edificio di pubblico interesse”. Ne è esempio la città di Birzeit, nella quale si trova la Birzeit University. Il centro Riwaq è intervenuto garantendo infrastrutture necessarie: allacci di luce, acqua, elettricità, gas. Ha decorato il centro storico con alberi, viali e parco giochi per bambini; facendone uno dei centri storici più attrattivi della Palestina. “Anche nel settore privato - prosegue Suad Amiry - stiamo lavorando arduamente e pensiamo a progetti innovativi. Nella stessa città di Birzeit, Riwaq si è fatto carico della costruzione di una casa per studenti e una mensa universitaria”. Riwaq sta costruendo a Birzeit e negli altri villaggi edifici abitabili, completi di bagno e cucina. In alcuni di essi, dato che gli edifici sono piccoli, si pensa di creare monolocali per studenti o giovani coppie. “Si pensa che lavorare in Gerusalemme o Ramallah sia più semplice - dice Suad - ma in realtà ci risulta molto meno complicato lavorare nei villaggi, poiché spesso nei piccoli centri ci vengono concessi da anziani proprietari terreni inutilizzati”. Il progetto ha già dei partner finanziatori che hanno adottato tre dei cinquanta villaggi. Essi sono Svezia, Kuwait e la stessa Palestina. All’Italia è rivolto un appello particolare. L’iniziativa è stata presentata ufficialmente alla III biennale del Riwaq, lo scorso anno a Venezia. Tra l’altro, era la prima volta che la Palestina partecipava in Italia ad una biennale. Nell’ottobre del 2009, proprio con l’obiettivo di costruire una partnership tra Palestina e Italia, è stata formata, nell’ambito della biennale, una commissione straordinaria composta da cinquanta esperti internazionali, che sono andati a Birzeit per analizzare l’iniziativa promossa dal Riwaq dei 50 villaggi e trovare un modo per metterla in connessione con paesi esteri. Nonostante le difficoltà, Suad e la sua équipe, vanno avanti coraggiosamente, pensando nuovi progetti per scrivere un futuro migliore al paese.


Eleonora P. - Solidarietà Internazionale