13/11/13

RAI: Pornografia umanitaria

“The Mission” è il reality umanitario prodotto dalla RAI in collaborazione con l’Alto Commissariati delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) e l’organizzazione non governativa italiana Intersos per far raccontare la sofferenza dei rifugiati in Sud Sudan, in Repubblica Democratica del Congo e in Mali ad alcuni VIP tra cui Emanuele Filiberto, Paola Barale, Michele Cucuzza, Barbara De Rossi, Al Bano. Il primo episodio verrà trasmesso il 27 novembre e il secondo il 4 dicembre.


FIRMA LA PETIZIONE: http://www.change.org/it/petizioni/rai-non-mandare-in-onda-il-reality-mission-nomission


DISSERVIZIO PUBBLICO 
di Giorgio Fornoni
Prendete tre pseudo-vip del calibro di Albano, Emanuele Filiberto e Michele Cucuzza. Metteteli per dieci giorni fianco a fianco con gli operatori umanitari in un campo profughi del Sud Sudan, del Mali o del Congo. Accendete le telecamere 24 ore su 24 e condite il tutto con le lacrime facili del buonismo televisivo. Ecco la geniale ricetta della RAI, l’ente pubblico televisivo italiano, per risollevare le sorti di un’azienda in evidente crisi di identità.
Il format del reality, con i suoi precedenti illustri de “L’isola dei Famosi” e del “Pechino-Express“, viene applicato alla tragedia di un mondo devastato dalle tre maledizioni bibliche di sempre: la peste, la fame, la guerra. Si chiamerà “Mission”, orecchiando l’avventura dei gesuiti tra gli indios guaranì del Sudamerica raccontata dal film con De Niro. L’ondata pubblica di sdegno che ha raccolto in pochi giorni oltre 40 mila firme sul web, basata proprio sugli esempi ben noti di tv-spettacolo, lascia già immaginare quale sarebbe il risultato finale dell’operazione e a quale livello di tv-spazzatura si sia arrivati. L’Africa è stata sfruttata da tutti, per secoli. Non farebbe eccezione l’idea di trasformare uno dei suoi infiniti drammi dimenticati in un teatrino nazional-popolare.

UNA STRONCATURA SENZA APPELLO
Autorevoli esponenti delle associazioni umanitarie, che da anni lavorano con serietà, impegno e in silenzio sui drammi del mondo, sono insorti accusando i dirigenti RAI di volere qualcosa che somiglia alla “pornografia”. La giustificazione, da parte loro, è che in questo modo si vuole “sensibilizzare” il pubblico sul tema della cooperazione, di fatto sostenendone la causa, anche con concreti ritorni economici. Questo spiegherebbe anche l’appoggio, a sorpresa, dato all’iniziativa, da organizzazioni come Intersos, una delle maggior Ong italiane, e la stessa Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite, l’UNHCR.
Lo sdegno, già ampiamente espresso e manifestato da molti, contro un’operazione che ha tutte le premesse di una volgare spettacolarizzazione del dolore e della sofferenza (centrato tra l’altro sulla mediocrità dei personaggi chiamati in causa come attori principali), parte da motivazioni di tipo etico e morale. Questo è un dato di fatto, il punto di partenza di una stroncatura senza appello. Si dimentica però, a mio avviso, un’altra prospettiva, che inchioda i promotori dell’iniziativa, e in particolare i dirigenti dell’azienda pubblica che hanno avviato il programma, a confrontarsi con la loro buona fede.

RAI: L’INFORMAZIONE NEGATA
Come si può dire, senza essere tacciati di ipocrisia e mala fede, che si vuole “sensibilizzare” il pubblico sui grandi temi delle tragedie dimenticate quando per anni, sistematicamente, è stato negato lo spazio di informazione adeguato e corretto per rappresentarle? Quello dei servizi giornalistici, dei telegiornali, delle interviste, dei reportage dalle tante aree dimenticate del mondo, di un’Africa stessa che figura agli ultimissimi posti in tutte le classifiche della geografia RAI? Perchè non si dovrebbe dimenticare che la maniera più corretta, “normale” direi, di sensibilizzare il pubblico è quella di raccontare la verità e di informarlo sulle dinamiche di una storia che passa davanti ai nostri occhi senza che a volte ce ne rendiamo nemmeno conto. E i professionisti chiamati per loro deontologia professionale e per loro stesso mestiere a farlo sono i giornalisti, gli inviati, e quanti comunque vivono dall’interno, in presa diretta e in prima persona, eventi e drammi in qualsiasi parte del mondo.
Posso testimoniare in prima persona, come giornalista e reporter, la difficoltà enorme di trovare spazi nei palinsesti, per raccontare le tante storie, non necessariamente drammatiche, ma comunque degne di essere prese in considerazione e conosciute, che si possono facilmente raccogliere se si ha il coraggio di viverle sul posto. “Sei stato in Angola? Ma hai chiesto in giro quanti sanno dov’è l’Angola?” Così mi sono sentito chiedere da un direttore televisivo al mio ritorno dall’ennesimo viaggio e da un’intervista esclusiva al capo dell’Unita, Jonas Savimbi, protagonista della lunga guerra civile seguita al ritiro dei portoghesi. Quanti miei colleghi si sono sentiti fare la stessa domanda a proposito della Liberia, dell’Eritrea, dei Saharawi, in esilio da 40 anni nel deserto più inospitale del pianeta, dove un popolo intero vive in campi profughi diventati città, ignorato dal resto del mondo che gli nega il diritto all’autodeterminazione?
E che dire dei traffici di coca, di oppio, di diamanti, di oro, di coltan che alimentano una economia sommersa mondiale e che sono all’origine di tante guerre e di tante migrazioni di profughi? Se c’è una categoria chiamata istituzionalmente a parlare di queste cose, col filtro della propria professionalità, dell’impegno morale e della capacità di andare oltre ciò che si vede, i luoghi comuni e le tante disinformazioni strumentali, per capire le cause prime di sofferenze e lutti, questa è quella dei reporter internazionali. Ne conosco tanti che hanno dato la vita e sono pronti a darla in ogni momento in qualche parte dimenticata del mondo, per strappare la testimonianza di una foto, una ripresa filmata, un’intervista rivelatrice sull’intreccio di interessi che nasconde la verità.

DOVE ERANO I RESPONSABILI DELL’INFORMAZIONE?
Dove erano allora e come si comportano oggi i responsabili dell’informazione pubblica così ansiosi di “sensibilizzare” il loro pubblico? Dove erano quando tornavo con le immagini di una Grozni rasa al suolo dalla real-politik di Putin, con storie angoscianti dai campi profughi dell’Inguscezia e del Dagestan. O dalla valle del Panchisi, in Georgia, dove l’unico giornalista presente, quando c’ero entrato, era stato Antonio Russo, di Radio Radicale, ucciso dai servizi segreti russi? Quante volte mi sono sentito dire da una famiglia di profughi ceceni o da qualche donna congolese o saharawi, “racconta al mondo la nostra storia, perchè nessuno sembra accorgersi di noi”. L’ho fatto, qualche volta anche per “Report”, l’ho sempre fatto e continuerò a farlo, anche se poi ho sempre dovuto constatare di persona quanto è difficile far passare un messaggio del genere sui grandi canali di informazione. Tante altre volte, in passato, potevo raccontare le mie storie soltanto su qualche rivista missionaria o in conferenze pubbliche di paese.
Ci sono tanti colleghi, anche amici, che hanno pagato con la vita il loro impegno. Come Anna Politkovskaya, che avevo incontrato, raccogliendone la frustrazione professionale per la insensibilità internazionale nei confronti della tragedia cecena. Si è dovuto aspettare che venisse freddata da un killer sulla porta di casa per accorgersi di lei e del suo grido.
Ben venga dunque la ritrovata attenzione della RAI di fronte ai tanti drammi del mondo. Ma che questa passi attraverso un cambiamento reale, attraverso una riconsiderazione più seria di tutta l’informazione televisiva, non solo mirata allo spettacolo o al trionfo dell’ovvio e del banale. Ci sono migliaia di reporter, in ogni parte del mondo, che non aspettano altro che qualcuno possa dar loro uno spazio e una voce per raccontare ciò che non è mai stato raccontato prima. Ci sono migliaia di operatori umanitari, missionari, persone direttamente coinvolte nei problemi, le sofferenze e le realtà di quello che una volta si chiamava Terzo mondo, che potrebbero diventare i protagonisti di questa autentica rivoluzione nel modi di fare e raccogliere informazione. Spiegarci per esempio perchè ogni anno decine di migliaia di persone affrontano rischi mortali partendo su barconi malandati dalle coste dell’Africa in fuga dai loro paesi. O perchè tante ragazze sono costrette ad alimentare la tratta degli schiavi che alimenta la prostituzione internazionale.

L’INFORMAZIONE È CULTURA, NON PORNOGRAFIA UMANITARIA
L’informazione è cultura, fare informazione significa dare al pubblico le notizie e gli strumenti per analizzarle e capirle, per formarsi un’opinione, per compiere delle scelte. Non è certo aprendo il sipario dei reality su un bambino che piange o che muore che si fa informazione e che si fa cultura. Questa, ha ragione Guido Barbera, presidente del Cipsi, è soltanto “pornografia umanitaria”. La RAI, anche e soprattutto nella sua qualità di azienda pubblica televisiva, non dovrebbe non solo accettarlo, ma nemmeno osare proporlo.
Si ribatte che anche all’estero ci sono vip dello spettacolo o del cinema che si sono prestati alla causa umanitaria. Da Lady D ad Angelina Jolie, abbiamo visto passare tanti altri nomi noti. Ma non avevamo mai visto prima, gente di spettacolo, fare della sofferenza vera il “proprio” spettacolo. Essere testimonial di una agenzia umanitaria, con la dignità e il rispetto che una operazione del genere richiede, non crea nessun disturbo e nessun problema morale. Altra cosa è mercificare la sofferenza e il dolore, farne spettacolo da voyeur, con l’ipocrisia magari di qualche finta lacrima in primo piano.
Ricordo una notte, nella foresta della Sierra Leone, nel cuore delle miniere dei diamanti insanguinati, quando le bambine-soldato rapite dai guerriglieri bussavano alla mia porta supplicandomi di portare via con me i figli nati dagli abusi e dalle violenze. È possibile trasformare un momento del genere in una sceneggiata televisiva? Ma soprattutto, viene da chiedersi, è lecito farlo?
Quando Laura Boldrini, all’epoca responsabile dell’UNHCR Italia venne contattata dai dirigenti RAI per valutare la proposta di una trasmissione, indicò giustamente un format televisivo australiano già esistente che a suo parere avrebbe potuto effettivamente funzionare. La differenza con l’ipotesi “Mission” e la presenza di un Albano che dice di voler cantare con i profughi “per aiutarli” è però abissale. Gli operatori televisivi australiani hanno infatti seguito per settimane, sul campo e in  presa diretta, chi nei campi vive e lavora, accendendo dunque i riflettori su una esperienza quotidiana che ben merita di essere raccontata e conosciuta.

LE CONTRADDIZIONI DELLA COOPERAZIONE
C’è poi un’altra considerazione fondamentale da fare sul senso di “spettacolarizzare” a tutti i costi il set naturale di un campo-profughi. E questa chiama in causa molte delle stesse organizzazioni umanitarie, la politica internazionale. Ci sono contraddizioni evidenti anche nel mondo della cooperazione. Ci sono interessi strategici e politici che fanno accendere i riflettori su un dramma e uno scenario internazionale piuttosto che un altro. Ci sono giochi di politica e di fondi dedicati che chiamano le ong a operare in un paese piuttosto che in un altro. Ricordo la mia ultima visita in Angola, dove dalla fine della guerra si trascina un drammatico problema di bombe e mine inesplose disseminate ovunque che continuano a mutilare e uccidere. Come in Cambogia, in Kurdistan, in tante altre parti del mondo. Non lontano da Huambo, avevo conosciuto e seguito il lavoro degli sminatori della agenzia Intersos, oggi apertamente schierata accanto alla RAI nel difendere questo osceno reality. Era la fine del 2001 e l’attenzione internazionale venne dirottata di colpo sull’allora semisconosciuto Afghanistan. Nell’arco di un mese, dopo l’intervento militare americano, erano tutti lì, compresi quelli stessi operatori che avevo incontrato in Angola. Da allora, e sono passati 12 anni, dell’Angola e delle sue mine non si ricorda più nessuno. C’è un perverso intreccio tra la politica internazionale e l’attività delle stesse ong che io stesso ho raccontato in un contestato servizio televisivo. Perchè molti corrono soltanto là dove sono i contributi internazionali e dove c’è la maggiore visibilità mediatica. La necessità di raccogliere fondi li espone poi, molto spesso, ad altre contraddizioni e a discutibili compromessi.
Può anche succedere che ci siano verità e crisi dimenticate che “non si vogliono” raccontare. L’ho sperimentato direttamente nel corso della mia inchiesta sul petrolio nel delta del Niger. Il destino di un intero popolo, quello degli Ogoni, è stato scritto dalle multinazionali che hanno invaso il loro territorio per farne campi di estrazione. Hanno avvelenato la loro acqua, sterminato i loro pesci e reso sterili per l’inquinamento i loro terreni. Chi si ribella e compie sabotaggi negli impianti lo chiamano guerrigliero o terrorista, anche nel linguaggio dei grandi networks internazionali. Un gioco facile che si ripete ovunque ci siano grandi interessi in gioco, dall’Afghanistan alla Cecenia, al Messico del Chiapas e di Marcos, o in Amazzonia.
A volte, lo stesso scenario di un campo profughi può nascondere realtà inquietanti. Il girone infernale, realmente dantesco, che ho conosciuto a Goma, al confine tra Rwanda e Congo e che ha devastato l’intera regione dei Grandi Laghi, è stato voluto e tuttora vive per la complicità della grande politica internazionale con le mafie locali e i governi corrotti. Per anni, dalla fine della guerra civile rwandese, il campo profughi è stato il santuario della guerriglia che ha insanguinato e insanguina la regione creando un flusso ininterrotto di profughi.
In Mali, il problema dei rifugiati nasce anche dalla guerra civile tra governo e Tuareg, innescata dalle armi vendute dai ribelli libici aiutati dall’Occidente per detronizzare Gheddafi e mettere le mani sul petrolio. Non si può capire la realtà di un campo profughi (e non saranno certo Albano, Cocuzza o il rampollo dei Savoia a farlo), senza capire le ragioni e le dinamiche vere, che restano spesso taciute.
Come la storia vera del coltan, che ho cercato di raccontare per “Report”: dalle miniere difese dai militari e le mafie locali della guerriglia, ai trasporti in mano ai mercenari russi, per finire al grande mercato internazionale dei telefonini e della tecnologia più avanzata. L’80 per cento del prezioso metallo, indispensabile nel mondo hi-tech, proviene dall’inferno verde e martoriato del Congo. Ma si vuole raccontare davvero? È questo che vuole la RAI? Beh, a mio parere ci sono modi più seri ed efficaci per farlo.

Fonte: Solidarietà Internazionale 

10/11/13

REPORT DI VIAGGIO DALL’INTERNATIONAL WORK CAMP 2013: Palestina, un viaggio nell’apartheid

Le politiche israeliane discriminano e limitano i movimenti dei palestinesi. Difficile l’accesso all’acqua. Le colonie sono off-limits. Giornalisti sotto pressione. Colpiti adulti e bambini

Un popolo straordinario che nonostante la martellante occupazione israeliana riesce a mantenere il suo equilibrio interiore. Questa è la loro più grande vittoria, una grande resistenza pacifica, che trova forza dall’anima e dal cuore grande di una terra bistrattata da decenni. E uno Stato che porta avanti un’occupazione militare che infrange il diritto internazionale, così come il diritto umanitario e persino il diritto militare. Spinta dal desiderio di mettere piede su una terra di cui scrivo da anni, decido di partire per partecipare alla III° edizione del campo di lavoro internazionale organizzato dal comune di Ramallah in collaborazione con Assopace Palestina. E’ il 13 agosto, il mio volo atterrerà a Tel Aviv e da lì mi muoverò per Gerusalemme, poi verso Ramallah. Sono sull’aereo, in direzione di arrivo. L’assistente di volo ricorda: “Le autorità israeliane raccomandano di non fare fotografie”. Guardo dal finestrino, non ci metto molto a capire il perché. Si intravedono molte basi militari, con cacciabombardieri. Una volta atterrata, mi accoglie l’atmosfera surreale dell’aeroporto internazionale Ben-Gurion. Passati i controlli di rito – dovuti ad “inconfutabili ragioni di sicurezza”, per molti una assurda e palese umiliazione – mi avvio finalmente verso l’uscita. C’è una statua di Ben-Gurion, guardandola riaffiorano in me alcune delle sue dichiarazioni risalenti agli anni in cui era primo Ministro in Israele e in riguardo alla pulizia etnica del popolo palestinese: “C’è bisogno di una reazione brutale e forte, dobbiamo essere accurati nei tempi, nei luoghi e su coloro che dobbiamo colpire. Se accusiamo una famiglia, dobbiamo fargli del male senza pietà, donne e bambini inclusi. Altrimenti non è una reazione effettiva. Durante le operazioni non c’è bisogno di distinguere tra innocenti e colpevoli”. Continuo a camminare, non riuscendo a fare a meno di pensare ad alcune delle parole più brutali dichiarate dal politico israeliano: “Dobbiamo usare il terrore – raccomandava Ben-Gurion nei suoi primi anni di militanza -, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle loro terre per ripulire la Galilea dalla popolazione araba”. E per le autorità israeliane quest’uomo è stato talmente da buon esempio da meritarsi onorificenze così manifeste. Spesso osservare anche la punta dell’iceberg, aiuta a capire meglio quello che c’è sotto.

LIBERTA’ CALPESTATE
Israele è uno Stato che ha trainato l’apartheid anche nel ventunesimo secolo. Ha creato una gigantesca macchina discriminatoria dandogli il nome di “sicurezza”. Le politiche israeliane discriminano e limitano i movimenti di tutti i palestinesi, invece di essere dirette esclusivamente verso particolari individui ritenuti pericolosi per la “sicurezza”. Ogni giorno libertà e diritti di un intero popolo vengono calpestati. Lo sanno i palestinesi così come lo sanno molti israeliani, che si riuniscono in gruppi ed associazioni per cercare di contrastare tutto questo. Ci sono centinaia di organizzazioni umanitarie israeliane che collaborano con i Territori occupati per cercare di mitigare gli effetti devastanti di una situazione disumana che va avanti da oltre un secolo. Ci sono israeliani, ad esempio, che se ne stanno quotidianamente ai checkpoint per cercare di aiutare qualche palestinese a passare, a non essere respinto nonostante debba attraversare la barriera per guadagnarsi il pane quotidiano. Per questo è preferibile parlare di Stato di Israele piuttosto che di “israeliani”, perchè a non tutti sta bene ciò che a loro nome generazioni di classi dirigenti stanno portando avanti. Nella Cisgiordania ci sono 125 colonie – senza contare le 15 in Gerusalemme Est -, e 98 avamposti che negli anni si sono trasformati in vere e proprie colonie. Poi dal 2002 un’infinita colata di cemento armato sta tirando su il muro della separazione, al fine di costruire un enorme ghetto. Oltre 700 chilometri in nome dell’apartheid.

IL MURO DI GERUSALEMME
Per la strada verso Gerusalemme il muro e un checkpoint mi danno il benvenuto. Con lo
Sherut, un taxi collettivo, passiamo attraverso un quartiere ortodosso. Scorgo dal finestrino tre bambini che ridono sotto al poster di due persone uccise e sanguinanti. Non riesco a capire cosa c’è scritto sopra quel poster, ma forse è meglio così. Arrivo a Gerusalemme. Una città che nonostante tutto regala un’intima pace interiore. Secondo le leggi israeliane i residenti palestinesi di Gerusalemme Est non sono né cittadini israeliani né abitanti della Cisgiordania. Hanno un permesso di soggiorno che gli permette di vivere nella città. Tale permesso può essere revocato dalle autorità israeliane qualora esse sostengano che “Gerusalemme non è il centro di vita” del titolare del permesso. Inoltre, i palestinesi residenti in Cisgiordania hanno non pochi problemi ad entrare a Gerusalemme. Per loro è obbligatorio il possesso di un permesso speciale e il passaggio ai controlli presso uno dei quattro checkpoint che circondano Gerusalemme. Per i cittadini israeliani e per i coloni non sono previsti permessi speciali. Ben 98 checkpoint fissi ostacolano la libertà di movimento dei palestinesi in Cisgiordania. Passeggiando tra i vicoli che ospita la porta di Damasco, s’incontrano parecchi sciuscià, ragazzini che in cambio di pochi spiccioli svolgono commissioni per adulti. Se si torna indietro giusto di qualche pagina della storia italiana, non mi sembra tanto distante dal nostro Paese la vita di questa terra. Mi metto in viaggio per Ramallah. Percorrendo la strada ci fermiamo perché incontriamo un posto di blocco. Un soldato israeliano sale sull’autobus per controllare i “permessi” ed eventualmente portare con sé “intrusi palestinesi” senza lasciapassare. A noi europei non guarda neanche. Ma d’altronde noi abbiamo un passaporto. Abbiamo un pezzo di carta che ci riserva dall’essere uccisi in strada, arrestati, umiliati senza motivo. Secondo un recente rapporto di Human Rights Watch “le politiche discriminatorie israeliane controllano molti aspetti della vita quotidiana dei palestinesi che vivono in aree sotto l’esclusivo controllo israeliano e tali politiche non hanno alcuna concepibile ragione di sicurezza”. Arrivata a Ramallah, scopro una città meravigliosa. Caotica di sicuro, ma con le sue straordinarie peculiarità. A Ramallah, per qualche istante, quasi ci si dimentica dell’occupazione. Quasi ci si dimentica che a nove chilometri da lì ci sono 3 colonie che contano migliaia di abitanti e sei avamposti. A molti villaggi palestinesi nei pressi di Ramallah sono state chiuse le strade per raggiungere la città. Oltre ad aver confiscato migliaia di ettari di terre palestinesi per costruire gli insediamenti, le autorità israeliane hanno anche reso quasi impossibile l’accesso dei palestinesi alle terre agricole, in particolare a quelle vicine alle colonie. L’accoglienza al campo internazionale è calorosa, la municipalità di Ramallah, nelle persone di Asad Hussary e Sana Barakeh, accoglie internazionali e palestinesi giunti nel campo di lavoro. Molti palestinesi che avrebbero dovuto partecipare al campo, non sono riusciti a raggiungere Ramallah poiché sono stati respinti da vari checkpoint. Asad e Sana sono stati giorno e notte con il gruppo di volontari, coordinando le attività e i lavori, offrendo quel mix così raro di professionalità e umanità insieme.

L’ACCESSO ALL’ACQUA E’ LIMITATO
Le giornate passano tra lavori manuali di decoro urbano, supporto a lavoratori edili, visite in altre località, ma anche preziosi incontri con operatori, politici ed attivisti. Nella Valle del Giordano, la situazione ci viene spiegata da un operatore della Maan Foundation. “Ci sono moltissime colonie israeliane nella Valle. Un tempo molte comunità palestinesi del posto possedevano coltivazioni di banane, ma la costruzione delle colonie ha distrutto tutto. Ha soprattutto limitato l’accesso all’acqua e molti palestinesi si sono visti costretti ad andare a lavorare nelle colonie. Ci sono molti terreni che Israele ha riservato per allevare i suoi animali, in cui i palestinesi non hanno assolutamente accesso. Altri campi sono stati definiti “riserva naturale”. La Valle del Giordano comprende quasi la metà dell’Area C. I confini municipali di ogni colonia, come nel resto della Cisgiordania, sono controllati dall’esercito. E guai ad avvicinarsi. Poi se sanno che sei un giornalista, non importa di quale nazionalità tu sia, aprono il fuoco. E’ successo a due reporter su commissione dell’UE. Dalla vedetta hanno intravisto una telecamera e hanno aperto il fuoco. Le colonie sono off-limits. Residence esclusivi per coloni. E solo per esserci avvicinati al muro che costeggiava una colonia esclusivamente per fotografare alcuni graffiti, sei soldati si sono affacciati urlandoci di allontanarci con mitra e telecamera alla mano. E’ stato stimato che poco meno di 10 mila coloni detengono il controllo del 50% dell’intera valle, mentre oltre 60 mila palestinesi hanno possibilità di accesso su meno del 10% del territorio nonostante Israele non goda di alcun diritto di proprietà sulle terre della zona. La Valle è stata da sempre un obiettivo strategico per Israele, che negli anni ha occupato l’area per accaparrarsi il controllo dell’intera rete idrica, proibendo ai palestinesi anche di costruire pozzi. A causa della mancanza di acqua le comunità di palestinesi locali stanno cercando un modo per riciclarla. Un operatore di un progetto di sviluppo idrico è stato arrestato per 8 mesi e 4 giorni; senza neanche sapere nulla in merito all’arresto. Gli hanno chiesto solo il nome. Quando fu rilasciato gli dissero che era stato arrestato per errore, a causa di un’omonimia.

I PRIGIONIERI PALESTINESI NELLE CARCERI ISRAELIANE
Il giorno seguente partecipiamo ad un’assemblea circa la situazione dei prigionieri
palestinesi nelle carceri israeliane. Tutte persone arrestate, che non sanno quando usciranno dal carcere. Molti prendono parola, quasi tutti parenti di persone che sono in carcere per i motivi più assurdi. Tra gli oratori, una bambina che piangendo esterna tutta la sua rabbia per l’arresto del giovane padre. “L’ultima volta che ho visto mio padre avevo due anni. E quando lo hanno arrestato non c’è stato concesso neanche di salutarci. Non posso godere dell’affetto di un padre. Vorrei solo un suo abbraccio”. Una anziana signora interviene poco dopo. Ha in mano la fotografia del figlio su una sedia a rotelle: “Mio figlio è stato arrestato mentre dimostrava contro le discriminazioni israeliane a Qalqelya. Mentre era in carcere è scoppiato un ordigno che gli ha fatto perdere le gambe. “Mio figlio ha bisogno di aiuto e di cure che in carcere non gli stanno assicurando” urla con dolore la donna. I coloni che vivono in Cisgiordania, nonostante gli insediamenti non siano stati formalmente annessi ad Israele, si avvalgono del sistema giuridico israeliano. Di conseguenza non sono soggetti alla legislazione militare, come invece lo sono i palestinesi. Con il regolamento 5757, “Regolamento di emergenza su reati nei Territori occupati e competenza ed assistenza legale” emanato dal Ministero della Difesa israeliano nel 1967, è stata ufficializzata una disparità di trattamento penale e legale degli imputati che garantisce ai coloni israeliani maggiori libertà e garanzie giuridiche, invece negate ai palestinesi. A due popolazioni sulla stessa area sono applicati due sistemi giuridici diversi. In particolare per quanto riguarda la modalità di arresto, il periodo massimo di detenzione prima del processo, il diritto ad avere un avvocato difensore, la pena massima consentita per legge, il rilascio di prigionieri, il trattamento degli stessi durante il periodo di prigionia. Oltre a violare il principio di ugualianza di fronte alla legge, la presenza di due sistemi di leggi evidentemente diseguali infrange anche il principio giuridico della territorialità, per cui “un unico sistema di leggi deve applicarsi a tutte le persone che vivono nello stesso territorio”. E’ la volta di Hebron, città in cui la vita dei palestinesi è stata resa ancora più difficile dall’intensificarsi dell’occupazione, quindi dalla creazione di 7 colonie nell’area urbana e dalla presenza di 17 checkpoint. Un protocollo firmato da Israele e OLP nel 1997 prevede la divisione amministrativa della città in due aree: H1 amministrata da una giunta palestinese e H2 sotto il controllo dell’esercito israeliano. Ai cittadini palestinesi è ancora vietato di passare per Shuhada Street, via nevralgica della città, nonostante il protocollo preveda la riapertura.

LA VIOLENZA MILITARE ISRAELIANA
Per chi vive in H2 anche andare a comprare il cibo diventa una difficle impresa, qualche volta mortale. Nelle ore del coprifuoco durante la seconda Intifada, nel 2002, Imnran Abu Hamdiyya, 17enne palestinese, fu arrestato dai soldati. In quel periodo l’esercito israeliano ad Hebron era solito usare pratiche molto inusuali di tortura ed uccisione dei palestinesi. Il ragazzino fu preso e messo di forza in una jeep. “Come vuoi morire?” gli dissero porgendogli tre fogli con scritto “ti spacchiamo la testa”, “ti gettiamo dalla jeep”, “ti spariamo”. Imnran scelse di essere gettato dalla jeep in corsa, così fu fatto. Ad oggi, la violenza militare israeliana non si è attenuata di certo. Mohammad Al-Salaymeh è stato ucciso lo scorso dicembre nel giorno del suo diciassettesimo compleanno. Era a casa con la famiglia, la mamma gli chiese di andare a comprare una bella torta per festeggiare. Il ragazzino si avviò verso un piccolo negozio vicino casa sua, nei pressi di un checkpoint. Un soldato israeliano gli sparò. Il 12 dicembre è il giorno in cui era nato, ma anche il giorno in cui fu ucciso. Mohammad era un ottimo ginnasta e, nonostante la giovane età, era riuscito a vincere numerosi campionati importanti, rappresentando la sua Palestina. Secondo dati Unicef, negli ultimi dieci anni circa settemila bambini sono stati arrestati, interrogati, perseguiti e/o imprigionati secondo il sistema giuridico israeliano. “Molti bambini sono arrestati nel cuore della notte nelle loro case – si legge nel rapporto “Children in Israeli military detention”(2013)-, da soldati armati fino ai denti. Si svegliano dalle urla dei soldati, che ordinano al resto della famiglia di lasciare la casa. Per molti bambini già solo il momento dell’arresto provoca un trauma psicologico. Spesso i soldati rompono i vetri alle finestre e insultano la famiglia del minore, prelevato da casa con la forza e senza un motivo specifico. Quello che i soldati comunicano ai famigliari è “Viene con noi, poi lo riporteremo”. Il rapporto è stato elaborato grazie alla collaborazione di un equipe di legali israeliani e palestinesi ed evidenzia “gravi violazioni dei diritti dei bambini”.

Sono all’aeroporto di Tel Aviv per il ritorno, scelgo di non dichiarare di essere stata in Palestina, poiché spero di evitare ore di folle interrogatorio, di perdere l’aereo, di subire perquisizioni, varie ed eventuali. In quell’aeroporto chi entra in Palestina è un potenziale terrorista, ovviamente. Mi mandano comunque in fila per le perquisizioni di routine. Davanti a me c’è una donna italiana con un bambino in braccio. Mentre siamo in attesa mi dice: “Fanno bene a controllare così approfonditamente, Israele deve difendersi dai terroristi palestinesi. Qui vivono nell’angoscia, poverini”. E forse è proprio questo il momento più agghiacciante di tutto questo intenso viaggio. “Lei cosa intende per ‘terrorista’?” le chiedo. Nel frattempo mi chiamano per la perquisizione. Ma so che è stato molto meglio così.

Eleonora Pochi