30/01/13

Violenza su minori: un passato nient’affatto remoto

Il racconto-testimonianza di una “bambina di ieri” istituzionalizzata 

Quando oggi assistiamo agli innumerevoli abusi su minori, ci sdegniamo. Eppure, il perpetuare di comportamenti aggressivi verso bambini e ragazzi palesa il fatto che ancora non si è fatto abbastanza. Sono in vertiginoso aumento i casi di pedofilia, anche a causa di Internet, abusi sessuali, violenze dirette o assistite che coinvolgono i nostri bambini.  La violenza su minori, purtroppo, esiste da sempre,  in ogni angolo di mondo. E’ il più grande fardello che l’essere umano porta sulle spalle. Analizzando quella in casa nostra, basta fare un piccolo salto indietro per capire qualcosa di più in merito. Quelli immediatamente successivi al dopoguerra, erano anni in cui i minori erano esposti a qualsiasi tipo di maltrattamento e sfruttamento. Non esisteva uno straccio di normativa a tutela dell’infanzia. Tanto per citarne una, era possibile compilare un modulo per fare ufficiale richiesta di un/a minore per “utilizzarlo” come servitù in casa. Solo nel decennio degli anni ’60 si contano oltre 300 mila minori ricoverati in Istituti, che erano parte di una rete di enti ed organi i quali si sarebbero dovuti occupare di garantire assistenza ai cittadini in condizioni di disagio. La concezione di “stato di bisogno” non era quella attuale, anzi era riconducibile ad una accezione medievale del termine: “L’assistenza pubblica ai bisognosi (…) racchiude in sé un rilevante interesse generale, in quanto i servizi e le attività assistenziali concorrono a difendere il tessuto sociale da elementi passivi e parassitari”, si legge da una nota del 1968 del Ministero dell’Interno, che assumeva le funzioni di direzione e coordinamento dell’assistenza pubblica e privata. Abbiamo raccolto la testimonianza di una donna che ha passato gran parte della sua infanzia in un Istituto romano, vivendo il più grande incubo della sua vita che le ha lasciato segni indelebili.

“Poco dopo la mia nascita, i miei genitori decisero che era arrivato il momento di emigrare dalla Puglia verso Roma. Noi eravamo sei ed era sempre più complicato sfamarci tutti  nella piccola cittadina di Canosa di Puglia. Arrivammo a Roma e mio padre fortunatamente trovò un buon lavoro, ma pochi anni dopo, nel 1954, fu stroncato da un infarto proprio mentre stavamo passeggiando. Io avevo cinque anni e mia madre si era ritrovata improvvisamente sola con sei figli. Si rimboccò subito le maniche e non fu affatto facile per lei, come per tante altre donne dell’epoca rimaste vedove con molti figli. Cominciò a fare molti lavori per mantenerci e tirare avanti la baracca. Iniziò come lavapiatti fino ad arrivare ad essere impiegata all’Ufficio d’Igiene (che allora era comunale, non municipale, n.d.r.). Devo dire che prima non era come ora, alcuni posti di lavoro erano molto più accessibili, forse perché si usciva dal dopoguerra. Dovendo lavorare, mia madre delegava la più grande di noi a prendersi cura degli altri in casa. Mia sorella era la figlia più grande, ma essendo già fidanzata e comunque giovane per l’arduo incarico di accudire cinque piccoli, non badava molto a noi, meno di tutti a me, che ero la più piccola e quindi la più “impegnativa”. Non stavo bene tutto il giorno a casa con lei, volevo mia madre. Così quasi ogni giorno mi incamminavo a piedi per oltre cinque chilometri, per andarla a trovare a lavoro. Ricordo che una volta fui investita violentemente da una Vespa, che mi procurò dieci punti di sutura dei quali porto ancora i segni sulla fronte. Più d’una volta mi vide una delle direttrici dell’ufficio di mia madre, che le intimò ripetutamente di non farmi più andare sul posto di lavoro.

Voleva spiegazioni del perché andassi da sola fin lì. Dopo poco,  la signora in questione mi segnalò ai servizi sociali, se così possiamo chiamare i Servizi di allora, e, come la maggior parte dei miei coetanei membri di famiglie numerose, finii nel primo Istituto, in Via Formia a Roma. Mia madre veniva di nascosto a sbirciare dalla rete di recinzione e vedendomi sempre piangere fece del tutto per tirarmi fuori di lì, ce la fece. Riuscì a riportarmi a casa. Tornai quasi ogni giorno a farle visita a lavoro. Il part-time all’epoca non esisteva, ma comunque avrebbe dovuto lavorare a tempo pieno per sfamare tutti noi. Mia sorella mi picchiava spesso ed io preferivo incamminarmi nella lunga strada che portava all’ufficio di mia madre, anche se per qualche minuto. Fui  di nuovo segnalata ai servizi sociali, che questa volta mi affidarono ad un Istituto in zona Trastevere. Piangevo di continuo, non volevo stare lì. Subì ripetutamente maltrattamenti fisici e psicologici da più di una istitutrice. Una di loro, la Sig.na Filomena, mi disse che era per colpa mia che mio padre era morto, perché ero cattiva. Mi ricattavano dicendomi che ogni volta che avessi pianto davanti a mia madre e le avessi detto che mi maltrattavano, mi avrebbero rinchiuso nello “stanzino del buio”. Ogni volta che mi serravano lì dentro per i motivi più folli, ero letteralmente terrorizzata. Ricordo che nello stanzino c’era una statua moretto e al buio erano visibili solo gli occhi. Filomena mi picchiava con una robusta bacchetta di legno, perché piangevo ed avevo paura, quindi ero cattiva. Mi ripeteva sempre che anche mia madre mi aveva abbandonata,  non mi voleva più. Lavavo i piatti di continuo, tant’è che riporto le cicatrici dei tagli che mi procuravo quando qualche piatto si rompeva tra le mie piccole mani. Anche il momento dei pasti non era affatto facile. Mi piaceva molto il salame ed ogni volta che ci veniva servito nel piatto, nascondevo qualche fettina nelle tasche, per gustarmelo pian piano durante la giornata, quando avevo più fame. Una volta mi videro e fui massacrata di botte. Molto peggio fu la volta che Filomena scoprì delle polpette, che a me non piacevano e che avevo nascosto mesi prima in un buco nel muro. Erano ricoperte di muffa ed erano palesemente avariate. Dopo avermi picchiata, mi costrinse a mangiarle tutte. Stetti molto male quel giorno, avevo dei dolori fortissimi. Ero veramente disperata, anche se molto piccola, e col senno di poi, posso dire che se la situazione sarebbe rimasta così per molto più tempo, sarei indubbiamente impazzita.

Nel periodo natalizio, alcuni rappresentanti istituzionali venivano a farci visita, portandoci dei doni. Appena si congedavano, i regali ci venivano tolti e restituiti giusto per qualche minuto l’anno successivo, nel momento delle visite istituzionali, per far sembrare che ci concedevano di giocare. Dopo qualche anno Filomena andò via dall’Istituto e poco dopo venne Roberta.  Passavo giornate intere sotto un albero di datteri nel giardino dell’Istituto, chiusa nella mia tristezza. Nonostante ciò, ogni volta che mia madre mi veniva a trovare io dicevo che andava tutto bene perché mi riecheggiavano in testa le minacce di Filomena. Roberta suonava il pianoforte e a me piaceva ascoltarla, così col passare del tempo mi avvicinai a lei, che fu la mia salvezza. Mi spiegò che non ero stata la causa della morte di mio padre, tanto meno mia madre mi aveva abbandonata perché non mi voleva più. Mi fece partecipare ad alcune recite, aiutandomi a farmi tornare la voglia di vivere che troppo presto quell’ambiente aveva spento. Mi sentivo utile e amata da qualcuno, non ero più quella cattiva che tutti dovevano trattar male. Sono stata in Istituto fino all’età di 10 anni. Tornai finalmente a casa, in un nucleo familiare che non mi apparteneva più, mi sentivo un estranea dopo tanti anni d’assenza. Ci volle parecchio tempo prima che riuscì ad affezionarmi di nuovo a mia madre. Ero stata convinta per molti anni che mi avesse abbandonata. Col tempo capì che non era vero, che invece mi voleva un gran bene…ma molti dei disturbi che mi avevano procurato in Istituto persistevano. Ricordo che mi si ruppe un bicchiere in casa e mi affrettai a racimolare i vetri a mani nude per nasconderli meticolosamente, terrorizzata dalla possibilità di essere punita. Avevo paura di quasi tutto, ero molto ansiosa e anche crescendo la mia vita è stata sempre segnata da una paura inconscia. Andai alle scuole medie, mi fidanzai e poi mi sposai. Nei primi anni di matrimonio io e mio marito non riuscivamo ad avere un bambino. Incontrai per caso Renata, una psicoterapeuta  della mia età che abitava poco distante da casa mia. Entrai in terapia e grazie a lei riuscì a mettere a tacere per sempre gran parte delle mie paure. Oggi ho 63 anni, tre figlie e quattro bellissimi nipotini che mi riempiono d’affetto”.

Eleonora Pochi

17/01/13

Buon Anno Sarajevo, giovani con il fardello della guerra sulle spalle

Un capodanno i cui fuochi d’artificio ricordano il frastuono delle bombe. Buon Anno Sarajevo è una pellicola che mira ad entrare nell’Io di ognuno di noi, attraverso 90 minuti di sensazioni che rappresentano la guerra con grande realismo. La giovane regista bosniaca, Aida Begic, ha vissuto quell’inferno e dopo Snijeg (Neve), suo primo lungometraggio, ha sentito il bisogno di tornare a raccontare. Questa volta sono storie di vita di oggi, di giovani che sono cresciuti nel post-conflitto. Una rappresentazione di quegli stati d’animo di chi pur essendo sopravvissuto, lo squarcio infetto della guerra se lo porta dentro, per sempre. Nel film non s’intravede neanche un mutilato, ma tutti i personaggi presenti, manifestano segni indelebili nell’anima e nella mente. I protagonisti sono due fratelli, Rahima e Nadir, rispettivamente di 23 e 14 anni, che vivono a Sarajevo. I ragazzi sono sopravvissuti alla guerra in Bosnia, che ha portato via i loro genitori, la tranquillità e il diritto di vivere una vita normale. Dopo anni trascorsi in orfanotrofio, i due riescono ad uscirne grazie a Rahima, che trova un lavoro come cuoca in un locale gestito da un uomo egoista ed avaro. Tutto lo staff che lavora ai fornelli sente stretto quotidianamente al collo il cappio della lotta alla sussistenza. Nedim, invece, deve fare i conti con i compagni di scuola che lo etichettano come “orfano” e lo deridono.

Il ragazzino reagisce vestendo i panni del “duro”, ruolo che di sicuro non gli appartiene, ma che lo porta su una brutta strada. Una rissa a scuola provoca non pochi guai in casa dei fratelli protagonisti. Nadir picchia un bambino che aveva insultato la sua mamma, rompendogli l’iPhone. Quel bambino però è il figlio di un ministro e da lì cominceranno una serie di guai sia per Nadir che per Rahima, che fino all’ultimo tenta di risolvere la faccenda nel modo più pacifico possibile, vista la sua profonda devozione all’Islam. Ed è anche per il velo che la ragazza porta quotidianamente sul capo che il fratello la disprezza poiché esso rappresenta per lui un’ulteriore fonte discriminatoria. Si capisce dalla riservatezza di Rahima, che è una ragazza forte e sensibile. Una piccola donna che incassa in silenzio i colpi inflitti da incessanti discriminazioni di natura economica, sessuale e sociale, sfogando nel buio della notte le sue lacrime. Si respira anche il clima di corruzione e malgoverno che tuttora risiede in Bosnia, malgrado siano trascorsi 16 anni dalla fine della guerra. Un popolo ancora oggi maltrattato, la cui speranza sembra stata sterminata dalle bombe, con un futuro strappato da un’oligarchia politica che vive cibandosi delle rovine di un conflitto che ha portato la morte per oltre 100.000 uomini, donne e bambini. Nonostante questo, lo sguardo della gente onesta che campa con l’affanno, sembra non spegnersi. Mai. Dal film si percepisce in ogni istante l’ansia, l’angoscia e il dolore che una guerra lascia dentro, anche a distanza di tanti anni. Quelle sensazioni che nessun telegiornale ha mai trasmesso. Storie di vita reali, di esseri umani che fanno percepire la vera dimensione della realtà, neanche lontanamente percepibile da una semplice notizia di cronaca. Menzione speciale a Cannes 2012 nella sezione Un Certain Regard, il film rappresenta la Bosnia Herzegovina come miglior film straniero ai prossimi Oscar. Sperando che ce la faccia a rientrare nella cinquina.

Buon Anno Sarajevo
Djeca
Regia: Aida Begic
Interpreti: Marija Pikic, Ismir Gagula, Bojan Navojec
Produzione: Bosnia Herzegovina/Francia/Turchia/Germania, 2012
Durata: 90′
Distribuzione italiana: Kitchen Film, 3 gennaio 2013

Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura

01/01/13

Il Natale moderno: un socio-panettone tra Babbo Natale, Jesus Superstar e pacchetti regalo

San Nicola e Babbo Natale
Il Natale per i cristiani rappresenta la data più rilevante del calendario liturgico. E’ un termine che deriva dal latino “natalis”, relativo alla nascita, ed appunto si celebra la nascita di Gesù. Sempre più diffusa, la festività natalizia è arrivata pian piano ad assumere connotati, tra i cristiani, che poco o niente hanno a che vedere con quel bambino nato in una grotta fatiscente della Giudea. Betlemme, tanto per tenerlo a mente, ora fa parte della Palestina, un territorio che sta subendo una sfrenata colonizzazione attraverso l’apartheid. E se Gesù fosse nato nel XX secolo? Considerando il fare dell’essere umano, forse sarebbe successo quello che accadde nel 33 d.C., forse con una modalità di esecuzione diversa, forse con un mandante diverso da un politico romano alle dipendenze di un Re. Senza dimenticare che c’è persino chi rivendica i tratti somatici orientali del Cristo in netta contrapposizione con chi è fermamente convinto che fosse biondo con gli occhi azzurri, alla Brad Pitt insomma. Possono sembrare contrapposizioni banali, in realtà sono chiari sensori di atteggiamenti razzisti.

Chiusa la parentesi religiosa, occorre analizzare l’aspetto folkloristico, e puramente laico, del Natale. Non si può parlare di Natale, senza nominare il buon vecchio Santa Claus, capofila indiscusso della slitta dorata che traina da decenni i guadagni delle fabbriche del giocattolo. E pensare che l’intento di San Nicola, da cui prende forma il personaggio di Babbo Natale, era mosso da umiltà e bontà, al fine di legare tra loro gli esseri umani, quindi non prevedendo un legame indissolubile tra essere umano e pacchetto regalo. La leggenda narra di un uomo vecchio e barbuto, di un paesino dell’attuale Turchia, particolarmente impegnato nella protezione dei bambini. I pubblicitari americani della Coca Cola hanno fatto il resto, assumendo dagli anni ’30 un Babbo Natale goffo, simpatico e con la slitta piena di doni, che ancora oggi non ha la più pallida intenzione di andare in pensione. Per licenziarlo, ci vorrebbe, come per tutti del resto, un “giustificato motivo”, che nessuno ha voglia di trovare in fondo. Ci sarebbero quelle decine di centinaia di piccoli aiutanti sfruttati dalle multinazionali dei balocchi, come Disney e Mattel, che secondo varie inchieste sfrutterebbero il lavoro minorile per sopperire all’enorme domanda mondiale di prodotti da distribuire tassativamente entro il Natale. Chissà cosa direbbero i nostri bambini se spiegassimo loro che il giocattolo portato da Babbo Natale è stato prodotto dall’estenuante lavoro delle manine di un loro coetaneo, che magari, come a volte succede, si è beccato un tumore a causa dell’uso di sostanze chimiche e velenose nel confezionamento del prodotto, oppure da una donna dell’età della loro mamma, sfruttata allo stremo per 20 ore al giorno per una paga irrisoria. Probabilmente, firmerebbero un licenziamento in tronco del Signore in rosso, invece della letterina. Si sa che i piccoli sono più sensibili e solidali degli adulti.

Ad ogni modo, il fenomeno natalizio va guardato anche da una prospettiva più ampia. La corsa al regalo ad ogni costo, molto spesso senza significato o sentimento alcuno, ha sommerso tutto quello che il dolce Nicola significava. Si potrebbe cominciare a fare doni natalizi solamente a chi si desidera davvero regalare qualcosa, non è un obbligo morale. E se fare regali a “pioggia” non è un dovere etico, neanche cenone, inviti e visite di cortesia devono essere un lavoro. Ne risentono solamente il proprio benessere psicofisico e il portafogli. Tonnellate di cibo finiscono nell’immondizia, mentre decine di migliaia di persone fanno la fila alla Caritas con la speranza di passare il Natale davanti a un pasto caldo. La frenesia inarrestabile, che non somiglia neanche un po’ all’adrenalina di passare del tempo con le persone care. La spesa, il pranzo, la cena, i regali, i negozi intasati, il traffico in tilt, linee di autobus organizzate per incentivare lo shopping, i lavoratori delle vendite che lavorano 7 giorni su 7, i torroni, i parenti, la bella figura che bisogna fare costi quel che costi. Tralasciando l’ultimo dell’anno, che puntualmente viene posto come fosse l’ultima serata dell’umanità. Il fenomeno crescente dello stress da maratona natalizia fa molto sorridere. Come se la nostra società fosse esposta a così poche fonti di stress, che se ne deve trovare delle altre, per giunta senza motivo. Il materialismo e il consumismo hanno penetrato così profondamente le nostre vite?


“È Natale da fine ottobre. Le lucette si accendono sempre prima, mentre le persone sono sempre più intermittenti. Io vorrei un dicembre a luci spente e con le persone accese”. (C. Bukowski)

Eleonora Pochi