19/06/13

Gaza: la cultura come resistenza

E' grazie all'impegno del centro italiano di scambio culturale “Vik to Gaza” che è stato possibile conoscere le storie di alcuni dei rappresentanti delle associazioni culturali della Striscia, attive nei campi delle arti figurative, della musica, della danza e dello sport, della comunicazione, del cinema e della ricerca filosofica. A due anni dalla morte di Vittorio Arrigoni, un convoglio che porta il suo nome è giunto in Italia per testimoniare che nonostante l'assedio e i continui soprusi, Gaza, come tutta la Palestina, riesce a tenere ben alta la bandiera della cultura, tenendo sempre vivo un sapere che permette di guardare oltre, linfa vitale della cultura di un popolo che anche tra i carri armati sa mantenere la delicatezza e la bellezza d'un fiore. Convinti che la cultura e l'arte potranno risvegliare l'umanità anche nei molti che l'hanno perduta a causa del gelo portato da decenni d'assedio. “Il pensiero fisso della contrapposizione del conflitto – racconta Sara, educatrice e attrice teatrale a Gaza – fa regredire le persone. Dobbiamo andare avanti. Stiamo cercando la libertà, per cui dobbiamo essere capaci di vedere oltre, di affrontare il futuro con un'ottica il più possibile positiva”. “Per gli abitanti della Striscia è molto difficile uscire – racconta un ragazzo gazawi emigrato in Italia parecchi anni fa – non solo per Israele. Anche Hamas sa bene che scoprendo posti nuovi e confrontandosi con altre persone, ci si rende maggiormente conto dei propri diritti. Uscire dalla Striscia aiuta ad aprire gli occhi su molte cose”.  


LA STORIA DI MOHAMMED
Mohammad è un ragazzo di 23 anni. Anche per lui, come per Sara e quasi tutti i ragazzi del
convoglio, è la prima volta in Italia, anzi è la prima volta che escono oltreconfine. Tra i suoi primi interventi di Mohammad in Italia, c'è quello da relatore all'incontro promosso da AssopacePalestina, Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese e Rete romana di solidarietà con la Palestina, organizzato in occasione della giornata internazionale di solidarietà con i detenuti palestinesi che si tiene ogni 17 aprile per ricordare tutti i detenuti che a dispetto delle convenzioni internazionali, scontano in carcere una pena inesistente. Dal 2000 ad oggi, sono stati arrestati, tra gli altri, oltre 8000 bambini. Nelle tre giornate si è lanciato un appello per la liberazione di Marwan Barghouti , parlamentare e leader di Al Fatah, condannato a cinque ergastoli nel 2004. A migliaia di prigionieri non è permesso neanche di vedere i propri familiari e questa è solo una delle tante misure previste dalla legge Shalit, pacchetto di provvedimenti deciso da Israele che viola i diritti umani.
Mohammad sa bene cosa vuol dire essere arrestati e rinchiusi in carcere, senza aver commesso nessun reato, perché le autorità israeliane un bel giorno hanno deciso di arrestarlo, visto che l'attività giornalistica svolta dal ragazzo era scomoda agli occupanti. 

Mohammad racconta di sé e della sua professione, che svolge con determinazione e professionalità per la Tamini Press, rete di network creata da lui con un gruppo di ragazzi del piccolo villaggio di Nabi Saleh, territorio interamente circondato dall'occupazione israeliana, non molto lontano da Ramallah.

“Abbiamo tirato su questo progetto editoriale circa quattro anni fa, quando l'esercito israeliano divise il nostro villaggio in quattro cantoni. Per noi era davvero inaccettabile vivere in dei recinti controllati dall'esercito. Da lì cominciammo a scrivere e attraverso il giornalismo, iniziammo una nuova forma di resistenza pacifica. I media non si occupavano della nostra situazione, così cominciammo a creare i nostri canali di comunicazione. Con il passare del tempo, le grandi emittenti iniziarono a consultare i nostri network (sito, radio, social media) per reperire notizie e informazioni. Siamo redattori, cronisti e video reporter e ci occupiamo di documentare soprusi perpetuati quotidianamente. Le forze israeliane hanno tentato più volte di arrestarci. Io sono stato arrestato e trattenuto in carcere per circa tre mesi, nonostante il mio arresto fosse palesemente illegale. Durante la detenzione ho letto molto, ho parlato con gli altri detenuti che erano stati incarcerati senza aver commesso nessun reato. Ci sono molti giornalisti e  intellettuali in carcere. Il motivo del loro, come del mio, arresto è il possesso di file segreti da parte delle autorità israeliane”. 


GLI SCIOPERI DELLA FAME 
Le autorità israeliane possono decidere l'incarcerazione a tempo indeterminato di cittadini palestinesi, senza capi d'accusa reali e senza processo. L'arresto e la detenzione reggono sulla inopinabile motivazione di “possesso di file segreti”, che tra l'altro non vengono resi noti ne al detenuto ne all'avvocato.   “Molti detenuti – continua Mohammad – intraprendono, come unica protesta possibile, lo sciopero della fame”. Gli chiedo se ha timore di tornare in carcere: “Non sono preoccupato di tornare in prigione. Sono un combattente pacifico e lotto per la libertà. I miei fratelli sono stati in prigione e le autorità israeliane hanno ucciso mio cugino. Quando vennero ad arrestarmi, i militari mi bendarono e mi dissero che se volevo vivere dovevo andare in un altro paese. A molte persone hanno demolito le loro case e hanno ucciso mio cugino proprio mentre stavamo lavorando in strada con le telecamere. Un cecchino appostato, gli ha sparato in faccia”.   


I LIMITI ALL'INFORMAZIONE
Tariq, vive nella Striscia ed anche lui è un giornalista: “Non abbiamo la possibilità di lavorare liberamente perché abbiamo evidenti limitazioni. Io, come tutto il team di giornalisti che lavora con me, abbiamo studiato comunicazione all'Università di Gaza. Personalmente mi occupo di documentare ingiustizie sociali perpetuate sia da Israele che da Hamas. Lavoro anche in radio, occupandomi di un programma bisettimanale su questioni sociali. Attualmente sono in Egitto, sto frequentando un corso di specializzazione in giornalismo. Ero a Gaza quando c'è stato l'attacco dello scorso novembre, “Pillar of cloud”, e ho documentato quello che è successo. Hanno bombardato gli edifici dove avevamo una piccola redazione del nostro giornale “Jordan Alhadf” . Due cronisti di un'altra testata sono rimasti gravemente feriti dai bombardamenti e le forze israeliane sapevano perfettamente che in quelle strutture c'erano giornalisti, anche internazionali. Ad ogni modo, tornando al nostro lavoro, stiamo cercando di tradurre il nostro giornale in molte lingue,  per dargli uno slancio e una risonanza internazionale”. 
Majid, un altro membro del convoglio, lavora in un centro che accoglie 700 bambini palestinesi, non molto distante dal confine nord della Striscia. “Intratteniamo i bambini con una scuola di circo e collaboriamo anche con alcuni ospedali, facendo la clown-terapia a bambini che subiscono traumi. Il brutto è che molti problemi di natura psichiatrica non possiamo risolverli...d'altra parte la cosa più bella è che facciamo spuntare il sorriso sulle facce di bambini che avevano perso la forza di ridere. Il lavoro che facciamo è tutto volontario, ma siamo tutti motivati dalla convinzione che dobbiamo recuperare i bambini, perché sono infinitamente preziosi”.

Me ne sto per andare, quando si avvicina timidamente il piccolo Mohammed, di appena 15 anni. “Io suono musica classica. Mio padre era un musicista, suonava musiche popolari e così sono cresciuto con la musica. Credo che la resistenza possa essere dimostrata anche attraverso uno strumento musicale”.   

Eleonora Pochi