17/02/11

Egitto: “C’est une Révolte?” “Non, Sire, c’est une révolution”


La recente Rivoluzione tunisina del Gelsomino , piuttosto che la Rivoluzione Egiziana sono diventate l’ emblema della rivolta popolare nelle pagine della più recente storia contemporanea.
Proprio come successe al tempo della Rivoluzione francese, quando alla domanda del Re “C’est une Rèvolte?”, il duca di Liancourt replicò “Non,Sire, c’est une révolution”, Suleiman, suo malgrado, ha dovuto annunciare la vittoria degli oppressi sull’oppressore.
Il Presidente egiziano Mubarak si è ufficialmente dimesso l’11 febbraio, contrariamente da quanto annunciato superbamente in TV il giorno precedente.

Sono circa le 17.03 quando piazza Tahrir esplode “Il popolo ha battuto il regime!”. Esultano le migliaia di persone che da diciotto giorni gremivano incessantemente le strade della capitale. Negli occhi, che brillano di speranza, la consapevolezza d’un umile e povero popolo di essere riusciti a guadagnarsi la libertà, pagando anche con il sangue il prezzo della disobbedienza civile.Il popolo ha vinto perché mosso da sacrosante motivazioni e principi democratici, quali si spera l’Egitto  sia straordinario portatore e funga da catalizzatore per gli altri popoli oppressi, come si sta dimostrando per l’Algeria.
Tra i candidati alla dirigenza egiziana figura il capo della Lega Araba Amr Mussa, il quale s’è dichiarato decisamente entusiasta per il risultato ottenuto e pronto per “costruire un sistema basato sul consenso popolare”.
Tunisia, Egitto e la recente rivolta algerina, insegnano tanto e devono suscitare una profonda riflessione, specialmente in noi italiani: la battaglia intrapresa dal web, la lotta alla censura portata avanti dal coraggio dei blogger e, nel caso della Tunisia, da artisti come El General , censurato ed arrestato per i suoi testi, lo scambio immediato di informazioni grazie alla rete, la rivolta trasversale di popoli interi che non hanno più paura di nulla, stanchi del peso della  privazione di libertà e futuro che gravava sulle loro spalle da anni, come un macigno.Sarà bello quando i nostri figli studieranno a scuola queste pagine di storia. Quando arriveranno a leggere il paragrafo sull’Italia di oggi, invece, cosa penseranno?
Spero non dovremmo vergognarci di dire “Noi non abbiamo avuto il coraggio”.
Quando il cittadino si rifiuta di obbedire, e l’ufficiale dà le dimissioni dal suo incarico, allora la rivoluzione è compiuta.
         Henry David Thoreau
Eleonora Pochi
Fonte: Fuon le Mura
                                                                                                            

13/02/11

Mobilitazione nazionale “Se non ora, quando?”

Domenica 13 febbraio in tutte le principali città d’Italia e d'Europa, il gentil sesso scende in piazza. Come dire, quando è troppo, è troppo.

Nel nostro paese risiedono circa 30milioni di donne, con le più diverse ambizioni, pensieri, passioni e l’amore con cui, buona parte di loro, si dedica alla cura di casa, marito e figli.
Secondo il Global Gender Gap Report, nella classifica mondiale per la parità dei sessi, l’Italia si piazza ad un vergognoso 74esimo posto, vicino a Bangladesh , Bolivia  e Madagascar.Dati statistici rilevano che solo il 46% delle donne riesce a concludere, a fatica, un contratto di lavoro, talvolta con la paura che una gravidanza possa portare al licenziamento.
Far firmare la lettera di dimissioni in bianco per poter comodamente sbarazzarsi di lavoratrici donne nel caso aspettino un bambino, purtroppo è una deplorevole pratica sempre meno isolata.Ci sono poi, casi in cui la donna è costretta a lasciare il posto di lavoro, dopo il primo, o peggio, il secondo figlio poiché lo Stato, ora come in passato, non è in grado di garantire un’assistenza adeguata alle madri lavoratrici. Da questa grave mancanza, ne consegue la sistemazione dei piccoli in asili nido, quasi sempre privati, giacché dell’attesa d’ammissione ai pubblici, si potrebbe anche morire.

Le discriminazioni che subiscono le donne in maternità, sono diverse e quasi mai denunciate poiché talmente diffuse che rientrano nella routine della vita lavorativa femminile.
Ho potuto constatare casi di donne, che tornate al lavoro dopo aver avuto un bambino, sono state licenziate o rimpiazzate da una new entry che di figli non voleva neanche sentir parlare e che soprattutto, si concedeva alle avances del titolare. This is Italy!…
Proprio dal caso poc’anzi messo in evidenza, si evince la sciagurata situazione di un paese intero.
Il mostrarsi così disponibili nei confronti di qualcuno che economicamente o con altri mezzi puo’ facilitare l’affermazione personale, è proprio quello che traspare dalle squallide vicende pubbliche, tristemente note.Sotto questo punto di vista, l’Italia è la vergogna d’Europa ed è inaudito, soprattutto, il fatto che ci siano uomini e donne che giustificano questo modo di fare come “affari che appartengono essenzialmente alla vita privata e sessuale di singoli soggetti”.
Le donne che studiano, lavorano sodo, faticano per affermarsi nei loro campi professionali, sono molto spesso denigrate proprio da quest’accezione della donna che nel nostro paese s’è andata affermando.
La donna è rappresentata da mass-media ed alcuni personaggi pubblici, come un oggetto di scambio sessuale ed una misera porzione di donne ne approfitta per avere “vita facile”, fortuna che la maggior parte di noi non è cosi.
Ed è proprio per questo che è stata indetta per domenica 13 febbraio una manifestazione nazionale, affinché tutte noi, presa coscienza dell’assurda condizione nella quale involontariamente ci ritroviamo, potremmo manifestare il nostro dissenso.
Donne, facciamo vedere chi siamo, tutte, nessuna esclusa.

                                                                                                                                
La natura ha dato alle donne un tale potere che la legge ha giustamente deciso di dargliene poco.
  Samuel Johnson

Eleonora Pochi
Fonte : Fuori le Mura 

04/02/11

Crisi umanitarie. 28 paesi, 50 milioni di persone

È emergenza record. Tra fame e conflitti, la penuria dilaga per un numero crescente di persone pari all’intera popolazione italiana. Sono 28 i paesi colpiti. Il Sudan si trova nella situazione più drammatica. Intanto la spesa militare mondiale aumenta a dismisura.

Per il 2011 l’Onu reclama ai paesi donatori 7,4 miliardi di dollari, al fine di sopperire alle quattordici crisi umanitarie attuali. È la cifra per emergenze umanitarie più alta mai chiesta nella storia delle Nazioni Unite.

Il denaro richiesto va a finanziare le operazioni d’aiuto umanitario urgenti per più di 50 milioni di persone in 28 paesi del mondo, tra cui Sudan, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Territori palestinesi occupati, Haiti, che dopo il terremoto ancora attraversa la crisi benché non se ne dica nulla, Pakistan e altri. “Nel 2011, decine di milioni di persone avranno bisogno di aiuto per sopravvivere - afferma il sottosegretario generale per gli Affari umanitari, Valerie Amos. Conflitti e disastri naturali hanno privato queste persone delle proprie case, dei mezzi di sussistenza e dell’accesso a beni essenziali come l’acqua potabile e l’assistenza sanitaria”. Amos ha spiegato che la situazione è andata peggiorando a causa dell’aumento incessante dei prezzi di combustibili, materie prime e degli effetti della recessione economica che ha colpito la maggioranza dei paesi donatori. La capacità di affrontare situazioni di grave emergenza umanitaria da parte della popolazione locale, tende a regredire soprattutto per i paesi colpiti, tra l’altro, da catastrofi naturali. Chi sta peggio è il Sudan, bisognoso di 1,7miliardi, seguito da Haiti con 907 milioni e dalla Repubblica Democratica del Congo con 679 milioni, teatro di una sanguinosissima guerra civile.

C’era una volta Haiti, dopo il terremoto

L’isola haitiana è stata colpita, oltre che dal terremoto, passato alla ribalta dei mass-media ma del quale (quasi) nessuno conosce il seguito, da una profonda epidemia di colera che sta piegando un’intera popolazione e non sembrerebbe possa essere debellata nel breve periodo. L’Organizzazione mondiale della sanità stima che nei prossimi sei mesi, il numero dei contagiati potrebbe arrivare a 650mila. “L’ampia portata dell’epidemia – ha dichiarato Ban Ki-Moon - è imputabile alla tipologia della malattia, che sembrerebbe appartenere ad uno dei ceppi più aggressivi del colera, combinata ad un debole sistema sanitario nazionale, alla mancanza d’accesso all’acqua potabile e ad altri servizi di base”. I soldi richiesti dall’Onu andrebbero a coprire due priorità: ridurre al più presto il tasso di mortalità attraverso il trattamento medico immediato, quando possibile, degli infetti e informare tutta la popolazione, compresi gli abitanti delle aree più isolate, sul trattamento preventivo del colera. Nonostante il durissimo e lodevole lavoro congiunto di Ong e agenzie Onu, gli sforzi non sono sufficienti. Dei 164 milioni di dollari richiesti lo scorso 11 novembre per far fronte allo scoppio dell’epidemia, ne sono stati ricevuti solo il 20%. Ad oggi, le cifre rese note dal ministero della Salute haitiano parlano di 1.800 morti e 85.000 contagiati.

Crisi umanitaria del Darfur
Quella che si consuma in Sudan è la più grande crisi umanitaria del pianeta. Focolaio della carestia è la vasta regione del Darfur, semi-desertica ma ricca di risorse sotterranee, messa a ferro e fuoco dalle milizie ciadiane e sudanesi. La situazione geopolitica del paese è molto complessa. Agli albori di questo 2011, il tanto atteso referendum deciderà le sorti del paese: la popolazione sudanese sentenzierà la probabile secessione del Sud e la conseguente autodeterminazione di una nazione indipendente. Inoltre, già dal 2005 il protocollo CPA (Comprehnsive Peace Agreement) prevedeva disposizioni provvisorie per gli Stati di Abyei, Southern Kordofan e Blue Nile, noti come aree di transizione. Con lo stesso referendum, probabilmente sarà decisa anche l’annessione al Sud o al Nord Sudan dello Stato di Abyei. Sembrerebbe quasi una battaglia navale, nella quale si ridisegnano continuamente confini... Sembra un gioco ma non lo è affatto. Sono quasi 5 milioni le vittime dirette del conflitto e metà di esse sono bambini. Nell’arco di sei anni, il conflitto in Darfur ha provocato più di 300mila morti e costretto almeno 2 milioni di persone alla fuga, i cosiddetti sfollati sia all’interno del Sudan sia nei campi profughi ciadiani. Inoltre, circa 17mila bambini vengono arruolati forzatamente per prendere parte alle ostilità. La situazione è regredita ulteriormente con l’espulsione di 7.700 operatori umanitari rappresentanti di 16 Ong, decretata dal governo sudanese in risposta al mandato d’arresto internazionale del marzo scorso nei confronti del presidente Omar Hassan Al-Bashir da parte della Corte penale internazionale, per crimini contro l’umanità. “Al-Bashir è stato ed è tuttora il mandante dei numerosi attacchi alle popolazioni civili, sono state distrutte intere comunità – dichiara la Corte penale internazionale –. La drammatica situazione del Darfur non comprende ‘solo’ una crisi umanitaria, ma un sistematico attacco alla popolazione civile”. Nonostante ciò, il presidente Al-Bashir non è ancora stato arrestato. Per chi volesse, segnaliamo la Campagna promossa da Italians for Darfur Onlus che sta raccogliendo, tra l’altro, firme per un appello rivolto ai principali media italiani affinché si parli di più del Sudan e della relativa crisi umanitaria. L’indirizzo web di riferimento è www.italianblogsfordarfur.it. Sarebbe interessante poi, analizzare l’altra faccia della stessa medaglia, ossia come gli Stati “democratici” investano costantemente in attività di guerra, mentre il piatto degli aiuti internazionali piange.

E per la guerra quanti soldi si spendono?
Benché sia noto che la guerra è sinonimo di sottosviluppo, si spendono molti più soldi per essa che per lo sviluppo e la cooperazione tra i popoli. Il rapporto è di 10 a 1. Secondo le statistiche SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) nel 2009 ben 1.531 milioni di dollari sono stati dissipati in spese militari mondiali. A dispetto della crisi finanziaria quindi, nel bilancio mondiale la voce “spese militari” appare sempre più cospicua: dal 2000 ad oggi c’è stato un incremento del 49% in nome di una “guerra contro il terrorismo”. Nel 2009 gli Usa hanno contribuito al 54% della somma complessiva per spese militari mondiali. Se questi sono stati i “costi” imputati allo svolgimento d’attività di guerra, sembrerebbe che in contropartita ci sia un tutt’altro che modesto ritorno economico. Il 44% dei fornitori di armi a livello globale è americano e ha generato nel 2009 un flusso d’export pari a 6.795 milioni di dollari, seguiti da Europa e Russia. Occorre precisare che l’Italia, nel 2009 ha impiegato in spese militari 588 milioni di dollari (SIPRI). Per il 2010 la spesa italiana per la guerra è stata stimata in 23.500 milioni di euro. L’Italia è stata nel 2009, per il quinto anno consecutivo, il primo paese al mondo per esportazioni di armi leggere, anche dette armi di tipo non militare, intascando ben 250 milioni di dollari. I paesi in via di sviluppo continuano ad essere i principali destinatari delle esportazioni di armamenti da parte dei paesi produttori, secondo il rapporto annuale del Congressional Research Service statunitense. Tra i principali destinatari: Arabia Saudita, Brasile, Corea del Sud, Egitto, India, Israele e Pakistan. Il 60% delle armi leggere globalmente prodotte finiscono per armare civili e rendere possibili guerre interne tra gruppi etnici e d’opposizione.

* Prossimo mese prosegue l’inchiesta sulle altre crisi umanitarie, a partire dalla Repubblica Democratica del Congo.

Eleonora Pochi
Fonte: Solidarietà Intetrnazionale