10/11/14

Case demolite, seri i danni psicologici per i bambini palestinesi

I bambini che hanno assistito alla demolizione della propria casa da parte degli israeliani presentano depressione e ansia, difficoltà nelle relazioni interpersonali.

La demolizione della propria casa da parte delle autorita’ di occupazione israeliane, unita all’espansione delle colonie, causa seri danni psicologici nei bambini palestinesi. I minori vittime di questo processo illegale per il diritto internazionale mostrano allarmanti sintomi di ansia e depressione, che sfociano nel disturbo da stress post-traumatico.La distruzione dell’abitazione è una delle cose che sconvolge maggiormente i più piccoli, perché non ne capiscono il senso e perché mina una base fondamentale della loro sicurezza.Considerando solo Gerusalemme Est, circa 200 mila coloni israeliani hanno preso forzatamente il posto dei residenti palestinesi.
Secondo il Committee Against House Demolitions(ICAHD) per i palestinesi ottenere permessi per costruire su terreni di loro proprietà è quasi impossibile. Il 94% delle richieste di permesso presentate da palestinesi sono rifiutate dalle autorità israeliane, tanto a Gerusalemme Est quanto in tutta l’Area C. Da gennaio ad aprile 2013, l’UNRWA ha riferito che oltre 90 persone, tra cui 49 bambini, sono state sfollate dalle loro case a Gerusalemme Est. I minori vittime di questo processo illegale, stanno mostrando allarmanti sintomi di ansia e depressione, che sfociano nel disturbo da stress post-traumatico.

“I bambini che hanno assistito alla demolizione della propria casa – spiega Anan Srour, psicologo clinico ed educativo al Palestinian Counseling Center – presentano un netto peggioramento su una serie considerevole di indicatori della salute mentale, tra cui il ritiro, disturbi somatici, depressione e ansia, difficoltà nelle relazioni interpersonali, delusione cronica, atteggiamenti ossessivo-compulsivi, difficoltà di concentrazione, devianza e comportamenti violenti. Quando arriva un ordine di demolizione e di evacuazione della casa, “un bambino, mentre va a scuola non sa se al suo ritorno troverà ancora intatta la sua casa, non sapendo il giorno in cui arriveranno i soldati accompagnati da bulldozer. E’ un costante stato di stress”. Una situazione simile ha implicazioni su tutte le funzioni quotidiane del minore e i genitori non hanno l’energia e la forza psicologica per rispondere alle esigenze del figlio. L’aiuto delle Nazioni Unite alle famiglie le cui case vengono illegalmente demolite, garantisce una continuità almeno alla vita scolastica dei bambini.

Dal rapporto “Broken Homes” di Save The Children: “Le Nazioni Unite aiutano i poveri – dice il piccolo Imran -, le persone le cui vite sono state distrutte. Io non voglio essere identificato come tale”. Il momento della demolizione per molti bambini è altamente traumatico: “Ricordo i soldati che ridevano e mi prendevano in giro perché piangevo. Provavo ad andare verso casa, ma mi bloccavano. Mi sveglio in piena notte in preda al panico, con questa scena in testa” conclude Imran.

Le famiglie le cui case vengono demolite, sono costrette a riversarsi in campi profughi. A causa di questi spostamenti forzati e improvvisi, alcuni bambini diventano molto vulnerabili e insicuri e sviluppano gravi reazioni d’ansia, comprendenti ansie di separazione, disturbi psicosomatici e, come Imran, disturbi del sonno. Alcuni diventano tristi e nostalgici e rimpiangono la loro vecchia casa. Altri rifiutano il nuovo ambiente e diventano aggressivi. Nella prima metà del 2013, secondo Peace Now e il Central Bureau of Statistics di Israele, si sono costruite illegalmente 1.708 unità abitative di insediamento, un incremento del 70% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. 

Eleonora Pochi
Fonte: Nena News


23/10/14

Discriminazioni e violenze dei coloni provocano traumi nei bambini palestinesi

La brutalità è un evento comune nella vita dei palestinesi, soprattutto dei minorenni, e gli effetti prodotti dall’interazione del trauma psicologico con razzismo e discriminazione sono complessi

(Nella foto: Farahat, palestinese di 9 anni, aggredito da un gruppo di suoi coetanei israeliani, figli di coloni)


I minorenni palestinesi sono esposti anche alla violenza e alle quotidiane discriminazioni da parte di gran parte dei coloni israeliani che risiedono negli insediamenti.

L’Unrwa ha ribadito di recente che “l’espansione degli insediamenti continua senza sosta e l’atteggiamento impunito e violento dei residenti israeliani non sembra manifestare cambiamenti” (Emergency Appeal Report, 2013). Gli insediamenti rappresentano un importante ostacolo al processo di pace. Una missione d’inchiesta del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite intrapresa nel 2012 ha concluso che l’esistenza di insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania rappresenta una violazione costante dei diritti dei palestinesi, inclusi i diritti all’acqua, alla casa, all’istruzione, ad una vita dignitosa. Nonché il diritto all’autodeterminazione e alla non discriminazione.

Farahat, 9 anni, è solo un esempio degli innumerevoli casi riscontrati: “Mentre portavol’asino della mia famiglia in un cortile dietro casa mia – situata vicino ad una stazione di polizia israeliana – sette bambini si sono avvicinati e mi hanno bloccato”, racconta il bambino a Defence for Children International-Palestine. Uno dei bambini ha preso una pietra e l’ha puntata verso di me, minacciando di colpirmi. Stava cercando di intimidirmi. Da circa dieci metri di distanza ha tirato la pietra verso di me e mi ha colpito sul naso e in occhio. E’ stato così doloroso che sono scoppiato in lacrime e corso verso casa”. I sette bambini aggressori sono figli di coloni israeliani. Farahat è stato portato all’ospedale dai genitori appena rientrato a casa.

Secondo il rapporto ‘Extremist Israeli settlers of Yitzhar terrorize palestinian villages’ pubblicato lo scorso dicembre dalla sezione palestinese dell’Ong internazionale Defence for Children, circa mille coloni israeliani radicali di Yitzhar terrorizzano 20.000 palestinesi dei villaggi circostanti di Burin, Madama, Asira al-Qibliya, Urif, Einabus e Huwara. “Più volte hanno raggiunto casa nostra – racconta Um Majdi, di Asira al-Qibliya -. Alcuni di loro tirano sassi contro di noi, altri appiccano incendi, o scrivono slogan di odio che sui muri. Siamo in uno stato psicologico di stress continuo”.

Insediamenti come Yitzhar continuano ad espandersi in tutta la Cisgiordania, con il sostegno del governo israeliano. Ci sono circa 650.000 coloni che vivono in oltre 200 insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Gli insediamenti hanno un profondo impatto sulla vita dei palestinesi. Oltre alla perdita di terre sottratte illegittimamente per gli insediamenti, la violenza dei coloni, traducibile in pestaggi, sparatorie, discriminazioni e distruzione delle proprietà, è un evento comune nella vita dei palestinesi, compresi, soprattutto, i bambini. I soldati israeliani spesso chiudono un occhio di fronte a simili accadimenti, e, peggio, in alcuni casi partecipano attivamente agli attacchi da parte dei coloni. “A volte sogno che ci portano insieme ai bambini dei vicini, ci sparano e ci gettano in una fossa”  racconta Roa’a Abu Majdi, 12 anni.

Le principali azioni violente degli abitanti delle colonie verso la popolazione palestinese sono: la distruzione delle grotte; il danneggiamento dei raccolti attraverso lo spargimento di sostanze tossiche; l’arresto delle attività agricole attraverso l’uso di armi da fuoco; il furto di greggi e dei raccolti; l’avvelenamento delle cisterne d’acqua e dei pascoli; i pestaggi di uomini, donne e bambini; le minacce di morte; lo sbarramento delle vie di comunicazione.

Il trauma della discriminazione e dell’umiliazione

Gli effetti prodotti dall’interazione del trauma psicologico con razzismo e discriminazione sono complessi. Tenendo presente che il popolo palestinese è sotto scacco di una pluriennale apartheid, razzismo e discriminazione possono essere un fattore di rischio per l’esposizione a stress traumatici; così come un elemento in grado di aggravare l’impatto di traumi psicologici e di amplificare il rischio dell’insorgere del disturbo da stress post-traumatico o di altri disturbi post-traumatici; una fonte diretta di trauma psicologico.

L’Università di Birzeit, in collaborazione con la Quenn’s University, ha pubblicato una ricerca che dimostra come l’umiliazione indotta dal conflitto costituisca un evento traumatico indipendente, con ripercussioni sulla salute di chi la subisce e a prescindere dall’esposizione ad altri eventi violenti e/o traumatici. “L’umiliazione intenzionale, oltre ad essere una profonda violazione della dignità e dei diritti umani, è una tattica di guerra rilevante. Una persona che è vittima di umiliazione cronica, ha tre volte di più la probabilità di avere disturbi mentali”. Sulla base dei risultati ottenuti, si è proposto l’inserimento dell’umiliazione tra gli indicatori dello stato di salute mentale, nelle ricerche che indagano le conseguenze della guerra e dei conflitti sulla salute delle popolazioni.

Innumerevoli studi psicologici e sociali sui minori in situazioni d’emergenza dimostrano che bambini e adolescenti affrontano un evento stressante con la propria soggettività, che dipende dall’età, dalle esperienze passate, dalla presenza di adeguate figure adulte di riferimento, del supporto sociale e dai fattori ambientali. Le reazioni individuali sono il risultato dell’interazione dinamica tra fattori appartenenti a diversi livelli: biologico, psicologico e sociale (famiglia, amicizie) che comprende la sfera politica, educativa ed economica. 

Eleonora Pochi 
Fonte: Nena News

GAZA. Israele colpevole di crimini di guerra

“E’ stato violato il diritto internazionale”, ha dichiarato oggi Navy Pillay, alto commassario Onu per i Diritti Umani, in riferimento al massacro della popolazione civile della Striscia, aggiungendo che “questi attacchi non sembrano affatto accidentali”.

Si tratta di violazioni delle norme stabilite dalla IV Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili in tempo di guerra. La presente convenzione, così come gran parte della normativa internazionale a tutela dei Diritti Umani, fu stipulata nel 1949, subito dopo le atrocità commesse durante la seconda Guerra mondiale, per stabilire regole precise in riguardo ai conflitti armati, in particolare per la protezione dei civili.

L’articolo 15 della suddetta convenzione stabilisce che “Ognuna delle Parti in conflitto potrà, sia direttamente, sia per il tramite di uno Stato neutrale o di un ente umanitario, proporre alla Parte avversaria la costituzione nelle regioni dove si svolgono combattimenti, di zone neutralizzate destinate a porre al riparo dai pericoli dei combattimenti, senza distinzione alcuna, le persone seguenti:

a) i feriti e i malati, combattenti, o non combattenti;

b) le persone civili che non partecipano alle ostilità e che non compiono alcun lavoro di carattere militare durante il loro soggiorno in dette zone. Non appena le Parti in conflitto si saranno intese su l’ubicazione geografica, l’amministrazione, il vettovagliamento e il controllo della zona neutralizzata prevista, sarà stabilito per iscritto e firmato dai rappresentanti delle Parti in conflitto un accordo, che fisserà l’inizio e la durata della neutralizzazione della zona”.

Il bombardamento della scuola UNRWA a Beith Hanoun e poi l’attacco di un’altra scuola delle Nazioni Unite a Jabaliya rappresentano violazioni del presente articolo. Non ci sono zone neutralizzate in tutta la Striscia in cui i civili possano essere al sicuro. Tra le vittime molti bambini. “Nulla è più vergognoso che attaccare dei bambini mentre dormono” ha dichiarato in merito Ban Ki-moon, segretario generale Onu. Il 77% delle vittime dell’operazione militare israeliana in atto, sono civili.

L’articolo 16 riguarda la tutela dei feriti e dei malati: “I feriti e i malati, come pure gli infermi e le donne incinte fruiranno di una protezione e di un rispetto particolari. Per quanto le esigenze militari lo consentano, ognuna delle Parti in conflitto favorirà i provvedimenti presi per ricercare i morti o i feriti, per soccorrere i naufraghi e altre persone esposte ad un grave pericolo e proteggerle contro il saccheggio e i cattivi trattamenti”.

Dall’inizio dell’operazione Protective Edge, l’IDF ha bombardato quattro ospedali: l’European General Hospital, l’ospedale di Al Aqsa, quello di Beit Hanoun e quello di Gaza City, Al Shifa. Medici senza Frontiere, presente sul campo, ha espresso più volte la grave illegalità alla base di questi attacchi militari: “Un membro del nostro staff internazionale si trovava nell’edificio (Al Shifa, ndr) quando l’ambulatorio dell’ospedale è stato bombardato -  denuncia Tommaso Fabbri, capo missione di MSF in Palestina -. Al Shifa è il quarto ospedale colpito dall’8 luglio. Attaccare gli ospedali e le aree circostanti è del tutto inaccettabile e rappresenta una grave violazione del diritto internazionale umanitario.  In qualunque circostanza, e soprattutto in tempo di guerra, le strutture sanitarie e il personale medico devono essere protetti e rispettati. Ma oggi a Gaza gli ospedali non sono il rifugio sicuro che dovrebbero essere”.

In riguardo al  soccorso umanitario d’emergenza, c’è l’articolo 20: “ Il personale regolarmente ed unicamente adibito al funzionamento o all’amministrazione degli ospedali civili, compreso quello incaricato della ricerca, della raccolta, del trasporto e della cura dei feriti e malati civili, degli infermi e delle puerpere, sarà rispettato e protetto”.

Sono tristemente note la difficoltà che gli operatori umanitari  stanno incontrando in questi giorni. Oltra agli ospedali, sono state bombardate ambulanze e non sono state rispettate le tregue umanitarie, necessarie alla ricerca e al trasposto di feriti e cadaveri.  Il video del ragazzo palestinese ucciso mentre con altri operatori cercava feriti sotto le macerie, ha fatto il giro del web.

Inoltre, secondo il New Weapons Research Committee, gruppo di scienziati che studia gli effetti delle armi non convenzionali sulle persone nel medio e lungo periodo, “ Israele sta sperimentando nuove armi non convenzionali contro la popolazione civile di Gaza”.  Fosforo bianco, DIME (Dense Inert Metal Explosive) e ordigni termobarici.  Mads Gilbert, medico norvegese operativo nell’ospedale di Shifa, a Gaza City, ha fatto notare che “moltissime persone possiedono ferite sospette, che dimostrano l’uso di armi illegali”. 

Eleonora Pochi 
Fonte: Nena News

14/08/14

Gandhi sulla questione Palestinese (Gandhi on Palestine, written in 1938)

"Ho ricevuto numerose lettere in cui mi si chiede di esprimere il mio parere sulla controversia tra arabi ed ebrei in Palestina e sulla persecuzione degli ebrei in Germania. Non e' senza esitazione che mi arrischio a dare un giudizio su problemi tanto spinosi."
 
M. K. Gandhi, Harijan, 26 gennaio 1938 -"Le mie simpatie vanno tutte agli ebrei. In Sud Africa sono stato in stretti rapporti con molti ebrei. Alcuni di questi sono divenuti miei intimi amici. Attraverso questi amici ho appreso molte cose sulla multisecolare persecuzione di cui gli ebrei sono stati oggetto [...]. Ma la simpatia che nutro per gli ebrei non mi chiude gli occhi alla giustizia.
 
La rivendicazione degli ebrei di un territorio nazionale non mi pare giusta. A sostegno di tale rivendicazione viene invocata la Bibbia e la tenacia con cui gli ebrei hanno sempre agognato il ritorno in Palestina. Perche', come gli altri popoli della terra, gli ebrei non dovrebbero fare la loro patria del Paese dove sono nati e dove si guadagnano da vivere? La Palestina appartiene agli arabi come l'Inghilterra appartiene agli inglesi e la Francia appartiene ai francesi. È ingiusto e disumano imporre agli arabi la presenza degli ebrei. Cio' che sta avvenendo oggi in Palestina non puo' esser giustificato da nessun principio morale. I mandati non hanno alcun valore, tranne quello conferito loro dall'ultima guerra. Sarebbe chiaramente un crimine contro l'umanita' costringere gli orgogliosi arabi a restituire in parte o interamente la Palestina agli ebrei come loro territorio nazionale. La cosa corretta e' di pretendere un trattamento giusto per gli ebrei, dovunque siano nati o si trovino. Gli ebrei nati in Francia sono francesi esattamente come sono francesi i cristiani nati in Francia. Se gli ebrei sostengono di non avere altra patria che la Palestina, sono disposti ad essere cacciati dalle altre parti del mondo in cui risiedono? Oppure vogliono una doppia patria in cui stabilirsi a loro piacimento?
 
[...] Sono convinto che gli ebrei stanno agendo ingiustamente. La Palestina biblica non e' un'entita' geografica. Essa deve trovarsi nei loro cuori. Ma messo anche che essi considerino la terra di Palestina come loro patria, e' ingiusto entrare in essa facendosi scudo dei fucili . Un'azione religiosa non puo' essere compiuta con l'aiuto delle baionette e delle bombe (oltre tutto altrui). Gli ebrei possono stabilirsi in Palestina soltanto col consenso degli arabi. [...] Non intendo difendere gli eccessi commessi dagli arabi. Vorrei che essi avessero scelto il metodo della nonviolenza per resistere contro quella che giustamente considerano un'aggressione del loro Paese. Ma in base ai canoni universalmente accettati del giusto e dell'ingiusto, non puo' essere detto niente contro la resistenza degli arabi di fronte alle preponderanti forze avversarie."
 
Fonte: www.daddo.it
 
 
***
 
"Several letters have been received by me, asking me to declare my views about the Arab-Jew question in Palestine and the persecution of the Jews in Germany. It is not without hesitation that I venture to offer my views on this very difficult question".
 
M. K. Gandhi, Harijan - My sympathies are all with the Jews. I have known them intimately in South Africa. Some of them became lifelong companions. Through these friends I came to learn much of their age long persecution. They have been the untouchables of Christianity. The parallel between their treatment by Christians and the treatment of untouchables by Hindus is very close.

Religious sanction has been invoked in both cases for the justification of the inhuman treatment meted out to them. Apart from the friendships, therefore, there is the more common universal reason for my sympathy for the Jews. But my sympathy does not blind me to the requirements of justice.

The cry for the national home for the Jews does not make much appeal to me. The sanction for it is sought in the Bible and the tenacity with which the Jews have hankered after return to Palestine. Why should they not, like other peoples of the earth, make that country their home where they are born and where they earn their livelihood? Palestine belongs to the Arabs in the same sense that England belongs to the English or France to the French. It is wrong and inhuman to impose the Jews on the Arabs. What is going on in Palestine today cannot be justified by any moral code of conduct. The mandates have no sanction but that of the last war. Surely it would be a crime against humanity to reduce the proud Arabs so that Palestine can be restored to the Jews partly or wholly as their national home. The nobler course would be to insist on a just treatment of the Jews wherever they are born and bred. The Jews born in France are French in precisely the same sense that Christians born in France are French. If the Jews have no home but Palestine, will they relish the idea of being forced to leave the other parts of the world in which they are settled? Or do they want a double home where they can remain at will? 
 
[...] I have no doubt that they are going about it in the wrong way. The Palestine of the Biblical conception is not a geographical tract. It is in their hearts. But if they must look to the Palestine of geography as their national home, it is wrong to enter it under the shadow of the British gun. A religious act cannot be performed with the aid of the bayonet or the bomb. They can settle in Palestine only by the goodwill of the Arabs. They should seek to convert the Arab heart.

The same God rules the Arab heart who rules the Jewish heart. They will find the world opinion in their favor in their religious aspiration. There are hundreds of ways of reasoning with the Arabs, if they will only discard the help of the British bayonet. As it is, they are co-sharers with the British in despoiling a people who have done no wrong to them. I am not defending the Arab excesses. I wish they had chosen the way of non-violence in resisting what they rightly regarded as an unwarrantable encroachment upon their country. But according to the accepted canons of right and wrong, nothing can be said against the Arab resistance in the face of overwhelming odds [...].

18/07/14

"Barriera protettiva" riporta l'inferno a Gaza: in dieci giorni 250 palestinesi morti

Dall’8 luglio é iniziata l'operazione mililtare “Barriera protettiva”, l’esercito israeliano ha ucciso oltre 250 palestinesi e il numero dei feriti sale tristemente verso i duemila. La quasi totalità della vittime sono civili. Oggi l'esercito israeliano ha dato il via all'invasione via terra. Nella Striscia di Gaza abitano circa un milione e mezzo di persone e non esistono rifugi dai bombardamenti e non si puo' uscire. E' una trappola. L'esercito ha coplito ospedali, case e infrastrutture di base in piena violazione del diritto internazionale, soprattutto delle disposizioni stabilite dalle Convenzioni di Ginevra in riguardo ai diritti delle vittime di guerra e al diritto umanitario. Lo scorso 16 luglio, un colpo proveniente da una nave della marina militare appostata in prossimità del porto di Gaza City ha colpito quattro bambini, tutti di età inferiore agli 11 anni. Proprio dietro al porto, "fortunatamente" alloggiava una delegazione di reporter internazionali, che è riuscita a filmare l'accaduto. In tutta la Striscia di Gaza è in corso l'operazione attraverso attacchi aerei, dal mare e via terra.
Ahed (10 anni) Zakaria (10 anni) Mohammed (11 anni) Mohammed (9 anni)

PALESTINA: Cosa significa crescere in un campo profughi


I dati sulle condizioni di vita nei campi profughi palestinesi  nei Territori occupati e nei paesi limitrofi, dove vive circa un milione e mezzo di individui, ovvero un terzo dei rifugiati registrati dall’UNRWA


Quasi un terzo dei profughi palestinesi registrati dall’UNRWA, oltre 1.5 milioni di individui, vive in 58 campi palestinesi riconosciuti in Giordania, Libano, Siria, Striscia di Gaza e Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. L’alta densità di popolazione che caratterizza tutti i campi profughi aggrava ancor più la precarietà nella quale si vive, a causa di condizioni di vita opprimenti, infrastrutture di base inadeguate, strade e fognature fatiscenti.

I restanti due terzi dei profughi palestinesi registrati vivono dentro o intorno alle città dei paesi ospitanti o, come in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, spesso nei dintorni dei campi ufficiali. Mentre la maggior parte degli impianti dell’UNRWA, come scuole e centri sanitari, si trovano nei campi profughi,  un certo numero è al di fuori per assistere i profughi che non hanno possibilità di accedere ai campi a causa del sovraffollamento. Tutti i servizi dell’Agenzia umanitaria sono comunque disponibili per tutti i profughi palestinesi registrati, compresi quelli che non vivono nei campi.

Secondo le stime FAO, l’81% della popolazione di Gaza vive al di sotto della soglia di povertà, con un dollaro al giorno. L’attacco militare israeliano “Piombo Fuso” del 2008/2009 nella Striscia di Gaza ha causato una strage. Un’operazione di guerra con l’uso di armi proibite ha causato, dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, oltre 5.000 feriti, 1.400 morti, di cui l’83% civili. Oltre 300 bambini sono stati uccisi dai bombardamenti. La quasi totalità della popolazione della Striscia è rimasta profondamente traumatizzata dal pesante attacco dell’esercito israeliano, essendo stata attaccata dal cielo, dalla terra e dal mare senza una via di fuga. L’impatto sulla normale crescita fisica e psicologica è forte. Inoltre, con la densità di popolazione più alta del mondo, i civili sono ancora più terrorizzati dalla chiusura dei confini, che di fatto sigillano la Striscia e la trasformano in una prigione a cielo aperto a causa dell’embargo imposto da Israele.

Metalli e sostanze cancerogene sono stati individuati nei tessuti di alcune persone ferite durante le operazioni militari israeliane del 2006 e del 2009. I loro effetti sono tossici e possono danneggiare il feto o l’embrione nel caso di donne incinte. Inoltre, una delle ricerche condotte rileva la presenza di tossine nei crateri prodotti dai bombardamenti israeliani a Gaza, indicando una contaminazione del suolo che, associata alle precarie condizioni di vita, in particolare nei campi profughi, espone la popolazione al rischio di venire a contatto con sostanze velenose. Per i bambini della Striscia esistono ben poche possibilità di elaborare i traumi subiti. Ancora oggi vi sono delle azioni militari nella Striscia, tra cui si ricorda l’operazione “Pilastro di Difesa” del novembre del 2012, che ha, tra l’altro, severamente danneggiato le infrastrutture del sistema educativo e il relativo svolgimento della vita scolastica dei bambini: 285 scuole sono state semidistrutte dai bombardamenti, incluse le 64 dell’UNRWA e 25.000 bambini si sono ritrovati senza una scuola. Circa 462.000 minori palestinesi abbandonano la scuola prima del termine del normale percorso educativo.
Più di due terzi dei minori residenti nella Striscia ha reazioni da trauma e alti livelli di stress post-traumatico: di questi oltre il 16% è affetto da incubi, la maggioranza dei quali (76,7%) causati da paura. A causa dell’operazione militare israeliana del novembre 2012, il 45,54% dei bambini del nord della Striscia di Gaza risulterebbe affetto da PTSD (Post Trauma Stress Disorder). In questo contesto, i gruppi di popolazione più vulnerabili necessitano di supporto psicologico e psichiatrico specifico per il superamento del trauma. Lo stato permanente di vulnerabilità e marginalizzazione delle comunità beduine presenti nell’area C, inoltre, alimenta un clima di insicurezza nei più piccoli, che manifestano disturbi comportamentali, aggressività, ansia e depressione.

Fonte: Nena News
Eleonora Pochi
 

23/03/14

Nabi Saleh e la lotta non violenta

Parla la giovane attivista Manal Al Tamimi: "Israele colpisce il villaggio aggredendo i bambini o togliendoci l'acqua, ma noi siamo più forti delle loro armi".


Nabi Saleh è uno dei villaggi in cui da oltre tre anni ogni venerdì si protesta pacificamente contro l'occupazione. È qui che è stato ucciso Mustafa Tamimi da un lacrimogeno lanciato da un soldato israeliano, assolto qualche giorno fa dall'esercito. Ma nel piccolo villaggio, nonostante sappiano che la legge non è per nulla uguale per tutti, non si rassegnano. Una comunità di appena 600 anime, a ridosso della quale è stata costruito Halamish, insediamento israeliano illegale, come tutto il resto delle colonie in Cisgiordania. I coloni spesso attaccano i cittadini palestinesi, distruggendo i loro campi o danneggiando le loro case. L'esercito fa il resto. Ogni venerdì è sempre più difficile contenere la violenza militare, senza essere armati.

Manal Al Tamimi è una giovane donna, membro del comitato di resistenza nonviolenta di Nabi Saleh. "Lottiamo contro l'occupazione - ci racconta - e abbiamo scelto di resistere in modo nonviolento. Sappiamo che il mondo giudica noi palestinesi come terroristi. Sappiamo che Israele ha fatto letteralmente il lavaggio del cervello al mondo, facendoci passare per una massa di violenti. Basta essere palestinesi per pensare automaticamente che minacciamo gli israeliani. Resistere pacificamente non è per niente facile, significa rispondere in modo nonviolento a tutte le aggressioni e soprusi che subiamo quotidianamente, soprattutto l'esproprio illegale delle nostre terre e la distruzione o il furto delle nostre risorse.

"La scelta della nonviolenza va pagata e siamo disposti a pagarla - continua Manal - Non abbiamo nulla da perdere. È meglio resistere e morire con dignità piuttosto che morire nell'umiliazione". Il prezzo che la nonviolenza deve pagare non è solo l'asimmetria nell'uso della forza. È il saper sopportare e reagire alle intimidazioni, alle minacce. Metabolizzare certi episodi è quasi impossibile. Manal Al Tamimi spiega che i loro bambini sono stati presi di mira da Israele: riversare intimidazioni e soprusi sui bambini è il colpo più profondo che si possa sferrare. "La cosa peggiore nella scelta di resistere è che i nostri bambini ne soffrono. Israele ha cominciato a mirare sui bambini. Per questo hanno ferito i nostri figli. Dieci bambini di età inferiore ai 10 anni sono stati colpiti. Usano pallottole, prodotti chimici". 

Nel villaggio bisogna fare i conti con problemi che intaccano significativamente il normale svolgimento della vita familiare e domestica: "Abbiamo poca acqua. Ne possiamo usufruire per dodici ore alla settimana e quasi sempre di notte. Inoltre hanno cercato di inquinare questa poca acqua con un prodotto chimico, con un odore simile a un morto in putrefazione". 

Il villaggio è abitato da circa 600 persone e lo scorso anno quasi tutti i cittadini di Nabi Saleh sono stati feriti: "Oltre 400 feriti. Tutti noi siamo stati feriti almeno una volta". Manal ci tiene a precisare che la loro è una lotta contro il sionismo, non contro il giudaismo: "Molti israeliani ci dicono che siamo antisemiti, ma noi in realtà combattiamo solamente contro chi ci ruba vita e speranza, non ci interessa che siano ebrei. Da quando abbiamo iniziato la nostra resistenza nonviolenta abbiamo avuto per la prima volta rapporti con israeliani, attivisti che lottano con noi per i diritti umani. È una guerra militante che ci unisce, per cambiare la mentalità. Se volete considerare l'altro come nemico lo potete fare - avverte Manal - ma ricordate che potrebbe esservi nemico anche un fratello. Non combattiamo il giudaismo. Abbiamo buone relazioni con israeliani attivisti, non le abbiamo con i coloni che cercano di ucciderci non appena mettiamo piede fuori di casa. Questo concetto della non violenza è nuovo e, quindi, difficile. È estremamente complicato rispondere con la nonviolenza a tutta la violenza che ci si riversa addosso. Ma siamo e saremo più forti delle loro armi".

Al Tamimi conclude spiegando che tra i Comitati popolari sta cominciando a farsi spazio un nuovo modo di pensare ad una risoluzione del conflitto: "Abbiamo cominciato a parlare di uno Stato unico, non di due Stati. Perché la soluzione dei due Stati ucciderebbe i palestinesi, ghettizzandoli ancora di più in uno spazio circoscritto. Uno Stato in cui potrò essere libera di andare a pregare a Gerusalemme, un solo territorio che garantisca diritti per tutti". 

Eleonora Pochi
Fonte: Nena News

15/02/14

Palestina, le sfide del Tribunale Russell

Un team di specialisti lavora per i prigionieri palestinesi. Parlano i suoi membri.

Il Tribunale Russell affonda le radici negli anni '60, quando su iniziativa del filosofo ed attivista Bertrand Russell viene convocata una sessione per il Vietnam, al fine di far emergere eventuali crimini di guerra commessi dagli USA durante il conflitto vietnamita e a cui prende parte anche Lelio Basso, avvocato penalista italiano. Ne scaturiscono altre sessioni, come quella per i diritti umani in Cile, sulle violazioni dei diritti umani in psichiatria e successivamente vengono analizzate la situazione irachena(2004) e palestinese(2009 ad oggi).

Dopo l'operazione militare israeliana "Piombo Fuso" contro la Striscia di Gaza, un gruppo di personalità internazionali decide di lavorare per indagare sulle violazioni del diritto internazionale.

Nell'ambito di un incontro di alcuni promotori del Tribunale Russell per la Palestina (TRP), organizzato per il lancio della Campagna internazionale per la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri politici palestinesi - a cura di AssopacePalestina e Fondazione Lelio e Lislie Basso - è intervenuto Pierre Galand, membro della sessione per la Palestina e ex senatore belga: "È da circa 60 anni che sosteniamo il diritto dei palestinesi all'autodeterminazione, ma ogni cosa che facciamo sembra non basti per provocare un cambiamento nella comunità internazionale. Israele non potrebbe agire da solo, se non avesse complici. Quindi - spiega Galand - abbiamo iniziato ad investigare anzitutto sui complici. Dopo il 2009, ci siamo organizzati per la prima sessione internazionale per la Palestina, riunendoci a Barcellona". 

Nel primo round si lavorava con l'intento di condannare la complicità dell'Unione Europea ma dai 27 Stati membri, oltre che qualche risposta formale all'invito di partecipazione al Tribunale, non c'è stato cenno di apertura, tant'è che, benché ci fosse una notevole partecipazione della società civile, "il giorno in cui avevamo fissato il confronto con gli Stati UE, abbiamo sistemato 27 sedie vuote, specificandone il significato".

Dopo la sessione di Barcellona, l'appuntamento di Londra nel novembre del 2010 ha approfondito la questione della responsabilità delle multinazionali. "Abbiamo incoraggiato un processo di advocacy nei confronti di aziende le cui filiali operano nelle colonie. Abbiamo ricevuto un buon riscontro, per esempio da Dexia - gruppo finanziario internazionale - che ha dichiarato di impegnarsi affinché le proprie filiali non operino nelle colonie israeliane".

Il Tribunale Russell incoraggia il boicottaggio come reazione al non intervento statale e/o del mercato. "Durante il lavoro svolto in cinque anni abbiamo visto che il TRP dimostra capacità di restituire forza al diritto internazionale - conclude Galand - Oggi assistiamo alla noncuranza di molti Paesi verso la normativa internazionale. A Ginevra si discute molto sui diritti umani ma, quasi sempre, non si agisce mai. Israele gode di una specie di immunità. Abbiamo cominciato a costruire un grande movimento ed oggi la campagna mondiale di boicottaggio è un importante strumento per costringere le classi politiche ad ascoltare". 

Ad un anno di distanza dall'incontro londinese, segue la sessione di Cape Town in cui l'èquipe internazionale analizza e discute la condizione effettiva dei diritti negati al popolo palestinese da parte dello Stato di Israele. In merito, Nurit Peled-Elhanan, israeliana ed insegnante di Lingue ed Educazione all'Università Ebraica di Gerusalemme, nonché membro del TRP, ha detto: "Non sono molto ottimista. Forse perché ci vivo. Perché qualsiasi cosa dice il governo israeliano è una falsità. So che continuerà ad ingannare tutto il mondo. La UE deve avere veramente il coraggio di non collaborare con le colonie". 

Nurit è autrice del libro "La Palestina nei testi scolastici israeliani: ideologia e propaganda nell'istruzione", in cui spiega come la propaganda razzista israeliana venga diffusa attraverso l'educazione dei piccoli: "Israele utilizza l'Olocausto come leva per la sua istruzione razzista. Anche i bambini israeliani sono vittime di un grave crimine, di ricevere un educazione razzista". Ci tiene a precisare la precarietà assoluta che regna in tutti gli ambiti della vita dei palestinesi: "Quando si pensa all'occupazione ci si deve ricordare anche di tutti i bambini palestinesi uccisi e agli oltre 6000 menomati. Nella Striscia oltre 300mila bambini non possono andare a scuola, perché Gaza è sommersa dai liquami. Stanno morendo di una morte lenta. I neonati muoiono all'ospedale". 

E focalizzandosi sull'importanza della campagna internazionale per la liberazione dei prigionieri palestinesi lanciata in Italia lo scorso 5 dicembre a Roma, ha aggiunto: "Dedico queste mie parole ai 700 che sono stati portati via dalle loro case di notte, arrestati, maltrattati e spesso torturati, incarcerati per mesi, se non anni. Parlo di bambini. Dai 4 fino ai 16 anni. Tutti loro non sono stati ascoltati". Nel sentire tutto questo da Nurit, fa venire i brividi. Proprio da lei. Una mamma che porta nel cuore il dolore eterno dell'uccisione di una figlia, Smadar Elhanan, tredicenne ammazzata da un attacco suicida a Gerusalemme nel 1997. 

"Israele distrugge la cultura - conclude - Applica diritti di cittadinanza selettiva e distrugge la capacità della società di riprodursi, privandola di ogni autonomia. Questi sono segni di quello che io definisco 'sociocidio'. Israele priva i palestinesi del loro passato e del loro futuro, condannandoli ad una mera sopravvivenza. Non conosco nessuno che abbia ucciso un palestinese e sia finito in carcere. E visto che le grandi istituzioni mondiali non sono riuscite a punire i crimini di Israele, la società civile deve farlo. Bisogna smetterla di chiamare Israele 'democrazia'". 

Leyla Shahid, prima donna palestinese ad essere ambasciatrice, promotrice del tribunale Russell per la Palestina: "Stiamo vivendo un periodo della politica mondiale molto difficile. Il movimento delle rivoluzioni arabe è temporaneamente democratico, benché sia riuscito a debellare alcune dittature. Così come s'è andata affermando una visione demoniaca dell'Islam, generatasi con Bin Laden. Tutto questo ha portato ad un impeto molto forte, di estrema destra, in tutto il mondo. Perfino nelle capitali europee. Ed è un motivo di enorme preoccupazione. Dobbiamo combattere il tentativo di strumentalizzare la libertà di culto e di manifestazione del pensiero". 

Anche Leyla sottolinea l'importanza del ruolo svolto dalla cittadinanza attraverso l'advocacy e il boicottaggio: "Bisogna batterci per la liberazione di tutti i prigionieri politici. Dobbiamo far prevalere le motivazioni giuridiche. Il diritto. Ci sono prigionieri malati di cancro che non ricevono le cure necessarie, ad esempio". E riferendosi a Marwan Barghouti: "Nelson Mandela non è stato solo liberato. È diventato presidente e ha stabilito la Pace con de Klerk". 

Leyla Shahid ha precisato infine che il Tribunale Russell può svolgere la funzione di osservatore delle nuove linee guida stabilite dall'UE, che impedirebbero finanziamenti alle colonie. "È sbagliato pensare che boicottare significa essere razzisti. È un efficace strumento per dissentire da accordi ed azioni criminali". 

Tutte i relatori, storici attivisti per i diritti umani, sono convinti che attraverso una campagna internazionale si riuscirà ad ottenere la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi, tra cui Marwan Barghouti, leader amato dal popolo palestinese, sostenitore della nonviolenza e dei diritti umani. "Quando vi verrà chiesto da che parte state, scegliete sempre la parte della libertà e della dignità contro l'oppressione, dei diritti umani contro la negazione dei diritti, della pace e della convivenza contro l'occupazione e l'apartheid. Solo così si può servire la causa della pace e agire per il progresso dell'umanità", ha scritto Barghouti dalla cella n. 28 del carcere di Hadarim. 

Eleonora Pochi
Fonte: Nena News 

21/01/14

Kafr Qaddum, come resistere all'occupazione

Murad Shtaiwi: "La protesta nonviolenta preoccupa molto Israele poiché innesca una resistenza ragionata e soprattutto speranza".

Foto: Jaafar Ashtiyeh/AFP/Getty Images
Kafr Qaddum (Cisgiordania) - Dopo gli accordi di Oslo agli abitanti di Qaddum non è neanche più consentito l'accesso alle loro terre; i coloni espropriano terreni ai palestinesi rivendicandone la proprietà. Alcuni episodi del villaggio di Qaddum sono diventati casi giudiziari e nonostante la giustizia abbia accertato il "furto di proprietà", l'occupazione continua. "E' vietato l'accesso agli arabi", spiegano rapidamente dalle torrette che costeggiano l'area intorno alla vasta colonia di Qeddumin. Nel 2008 alcuni giornalisti di Ha'aretz fecero notare ad un comandante dell'esercito che i palestinesi possedevano certificati di proprietà sui terreni ai quali gli si stava impedendo di accedere. "I documenti non mi interessano", rispose adirato. Inoltre, i coloni attaccano di frequente gli abitanti di Qaddum, incendiando le loro case, terreni, animali e olivi, alberi che rappresentano una preziosa risorsa per l'economia locale, ma anche per il sostentamento delle famiglie. 

Dal 2002, la strada che porta a Nablus è stata chiusa dall'esercito israeliano, isolando maggiormente gli abitanti del paese. Grazie alla creazione di Comitato popolare basato sulla resistenza nonviolenta, ogni venerdì ci sono delle manifestazioni per ottenere la riapertura della strada ed il riconoscimento delle terre. Nelle ultime settimane l'esercito ha potenziato gli attacchi al villaggio, per reprimere la protesta pacifica degli abitanti. Secondo l'International Solidarity Movement l'esercito israeliano ha intensificato anche gli arresti attraverso rastrellamenti improvvisi, soprattutto nelle prime ore del mattino e nella notte. Vengono arrestati anche minori di età, senza alcun riguardo di trattamento rispetto agli adulti. I bambini vengono prelevati da casa o dalla strada, arrestati, interrogati, maltrattati e senza dubbio traumatizzati. "Le manifestazioni nel villaggio di Qaddum subiscono una repressione altamente violenta - racconta A. C., attivista ISM stata a Qaddum -. Molti minori vengono rapiti di notte. All'improvviso decine di militari accerchiano abitazioni, irrompono violentemente, bendano e legano ragazzini e li portano via. Inoltre l'azione repressiva dell'esercito avviene sia prima che durante una manifestazione, per intimorire i manifestanti, disarmati, e spaventarli". Il maltrattamento di minori palestinesi ad opera dell'esercito israeliano è una delle piaghe più profonde dell'occupazione in tutta la Cisgiordania. Nell'ultimo rapporto Unicef, l'agenzia ha denunciato ripetutamente l'inosservanza della Convenzione sui diritti dell'Infanzia, ratificata da Israele nel 1990.

Nell'ambito di un incontro organizzato da Assopace Palestina in collaborazione con la Rete Romana di Solidarietà per la Palestina e la Comunità Palestinese di Roma e del Lazio è stato possibile conoscere e comprendere più da vicino le difficili dinamiche che affettano la quotidianità dei palestinesi di Qaddum. "Anche se la nostra situazione è di estrema sofferenza, il nostro intento quello di lanciare un messaggio di speranza attraverso la resistenza nonviolenta - spiega Murad Shtaiwi, coordinatore del Comitato Popolare -. Ci siamo organizzati da circa tre anni per protestare contro la chiusura della strada principale che collega il nostro villaggio a Nablus, blocco che impedisce ad oltre 4mila persone di avere contatti con l'esterno. Ovviamente non protestiamo solo per la riapertura della strada. Lo sblocco è simbolico perché rappresenterebbe la liberazione dall'occupazione. La resistenza nonviolenta è un diritto di ogni popolo che vive sotto occupazione e questo genere di protesta preoccupa molto Israele poiché innesca una resistenza ragionata e soprattutto speranza. Inoltre capita che nelle manifestazioni, al nostro fianco ci siano internazionali, ma anche alcuni israeliani. E la repressione che attuano dall'esercito colpisce indistintamente tutti, perché appunto hanno paura che si possa creare un'unione tra palestinesi, internazionali e israeliani". 

I lacrimogeni che usa l'esercito sono molto nocivi, inoltre spesso sono lanciati appositamente per uccidere o ferire gravemente i palestinesi. Episodi come l'uso di cani addestrati ad attaccare palestinesi inermi o l'attacchinaggio sulla moschea di foto segnaletiche di minori per terrorizzare la popolazione rendono vagamente l'idea dell'enorme stress psicologico a cui gli abitanti di Qaddum sono sottoposti. "Ci sono specifici comitati di psicologi e sociologi - spiega Murad Shtaiwi - che lavorano in coordinamento con il comitato di resistenza popolare. Offrono supporto ai minori in particolare, ma anche a genitori e insegnanti". 

Il sindaco di Kafr Qaddum, Samir Shtaiwi, spiega come molto spesso i coloni siano più pericolosi dell'esercito: "Al di là dell'occupazione militare, c'è un problema umano. Uno degli slogan preferiti dai coloni è 'Il palestinese migliore è quello morto'. Ed è sconcertante. L'occupazione ovviamente non mira a danneggiare 'solo' noi palestinesi. L'obiettivo è di sradicare totalmente qualsiasi cosa costruita dai palestinesi, dalle case alla cultura. E l'esercito israeliano sta tentando di soffocare le nuove generazioni, per questo vengono perseguitati, arrestati e/o maltratti anche bambini. La resistenza nonviolenta è quella che in realtà fa più male a Israele". 


Eleonora Pochi
Fonte: Nena News