18/07/11

Buon compleanno Nelson Mandela, maestro di vita

Il 18 luglio è stata proclamata dalle Nazioni Unite, una giornata internazionale dedicata al premio nobel che ha combattuto e vinto la battaglia all'apartheid

Ha insegnato al mondo intero che la forza delle parole è più potente di qualsiasi oppressione. Si direbbe che sia il premio nobel per la pace più meritato nella storia dell’umanità, quello attribuito a Nelson Mandela, un uomo che ha combattuto per la libertà e la democrazia, liberando un intero paese dall’apartheid. Rolihlahla, nome di battesimo che significa bizzarramente “colui che provoca guai”, nasce il 18 luglio del 1918 nel villaggio di Mvezo, nei pressi di Città del Capo.  Grazie ad una buona stabilità economica della sua famiglia, Nelson riesce a seguire l’Università dove inizia a condurre la sua lunga battaglia per la libertà. Nel 1940 lascia gli studi per ragioni politiche, iniziando poi a collaborare come praticante in uno studio legale. Poco più tardi, nel 1948, vince le elezioni il partito che rappresenta la comunità bianca, il National Party, che innesca da subito il terribile processo di segregazione razziale, separando i bianchi dai neri e vietandone i matrimoni. I bianchi sono gli unici a possedere diritti politici e ad avere accesso a determinate professioni.

Mandela partecipa attivamente al Congress of the People, che riunisce numerosi movimenti democratici ed antirazzisti. Nel 1961 è nominato capo dell’ANC, l’organizzazione militare costituita con lo scopo di sabotare gli obiettivi militari e civili del regime. Il 5 agosto 1962 Mandela viene arrestato con l’accusa di terrorismo e sovversione. Il discorso di quattro ore di Mandela, tenuto durante il processo, passa alla Storia quale emblema di veri principi ispiratori della lotta per la libertà: “Ho coltivato l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone vivono insieme in armonia e con pari opportunità. E’ un ideale per il quale spero di vivere e che mi auguro di raggiungere, ma, se sarà necessario, è un ideale per il quale sono pronto a morire”. Egli è condannato all’ergastolo: “Più potente della paura per l’inumana vita della prigione è la rabbia per le terribili condizioni nelle quali il mio popolo è soggetto fuori dalle prigioni”.

Nonostante abbia la possibilità di scrivere una lettera all’esterno ogni sei mesi, Mandela riesce a mantenere la sua leadership divenendo in tutto il mondo il simbolo della lotta all’apartheid. La comunità internazionale condanna il regime sudafricano, facendo pressioni, attraverso il movimento “Free Nelson Mandela!” sulla classe dirigente per la liberazione del prigioniero. Nel 1990 il nuovo presidente Frederik Willem de Klerk decide la scarcerazione di Mandela e la legalizzazione dell’African National Congress, intraprendendo timide trattative.
Alle elezioni del 1994 l’ANC si afferma partito vincente, con un numero straordinario di voti, e Nelson Mandela diviene così il primo presidente nero del Sudafrica. Il nuovo governo intraprende una nuova linea d’azione, ispirata al principio dell’uguaglianza, mirando a ricompattare i cittadini in un unico popolo e desegregando qualsiasi angolo. Nel 1995, in occasione dei mondiali di rugby, Mandela si adopera in prima persona per fare dello sport un ulteriore veicolo d’unione.

Durante il campionato gli Springbocks, squadra nazionale rappresentativa del Sudafrica bianco, vengono sostenuti da tutto il Paese, lo stadio è teatro di un’unione sincera e spontanea tra bianchi e neri, una gioia naturale che mai il Sudafrica del regime avrebbe potuto immaginare. In quell’anno la squadra sudafricana, molto meno preparata di molte altre in gara, vince la coppa del mondo. Le immagini di neri e bianchi che gioiscono abbracciandosi, resteranno nella Storia.  Mandela ha più volte dichiarato: “La mia famiglia è composta da 42 milioni di persone”, viceversa per milioni di esseri umani egli è un maestro di vita tanto quanto un padre, un nonno o un fratello. Dunque, i nostri migliori auguri, Mister Mandela.


"Mai e poi mai dovrà accadere che questa splendida terra conosca di nuovo l’oppressione dell’uomo sull’uomo. Che il sole non tramonti mai su questa gloriosa conquista dell’umanità"

Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura

14/07/11

Freedom Flottilla diretta a Gaza, bloccata dall'Occidente

Onu, Unione Europea, governi nazionali: non c'è istituzione che riesca ad imporsi al ricatto terroristico israeliano e la società civile ci riprova, da sola

La flottiglia della libertà è salpata. La finalità è la stessa dell'omonimo convoglio assaltato in acque internazionali il 31 maggio 2010 dalle forze israeliane, che hanno aperto il fuoco, causando nove morti, per impedire l'arrivo a Gaza di aiuti umanitari.
Quanto è avvenuto lo scorso anno è stato una chiara testimonianza della politica del terrore propagata dallo Stato ebraico, ciò malgrado la società civile internazionale non si è fatta intimorire. Davanti un simile embargo, tra l'altro fuorilegge, i governi occidentali e non continuano a far finta di non vedere, ma fortunatamente c'è anche chi si rifiuta di ignorare una simile ingiustizia, adoperandosi in soccorso del popolo palestinese. Ora, centinaia di attivisti ci riprovano: “È chiaro che, come un anno fa, il nostro intento è portare di fronte agli occhi del mondo l’ingiustizia del popolo palestinese – dichiarano gli organizzatori -, proseguendo la nostra battaglia per la liberazione di Gaza e la fine dell’embargo, in vigore dal 2007”, ma tutte le navi, tranne una, sono state bloccate dalle autorità di Atene, che impedisce loro di procedere in ragione del divieto del governo di Papandreou di consentire la partenza di qualsiasi imbarcazione per Gaza.

La piccola imbarcazione francese Dignité, partita dalla Corsica, è riuscita però a sgattaiolare in acque elleniche, sfuggendo ai controlli greci e procedendo dritta verso Gaza. La nave scampata al blocco greco dovrebbe raggiungere Gaza entro sabato 9 luglio. Milioni di attivisti in tutto il mondo si stanno mobilitando affinché vengano lasciate passare tutte le imbarcazioni ferme nel porto greco del Pireo. Sul web è stata diffusa una lettera aperta al Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, e al primo ministro greco, George Papandreou: “Il blocco delle navi della Freedom Flotilla da parte del governo greco – s'apprende dal testo della nota - è una dimostrazione che il blocco illegale imposto a Gaza da Israele si estende ora fino alle coste greche. Questo avvenimento mette in chiaro fin dove arriva, oggi, il potere indiscusso ed impunito di Israele. Considerando che non c'è stato di guerra tra Israele e Gaza, l'occupazione della Striscia è illegittima e il blocco non può estendersi a navi in soccorso umanitario – continua la lettera -, vogliamo ribadire che Israele sta violando il diritto internazionale e si sta distinguendo per le intimidazioni a tutti coloro che intendono sfidare il blocco”. L'indignazione che legittimamente traspare verso l'inottemperanza delle istituzioni internazionali, è spiegata dal fatto che sia Unione Europea sia Nazioni Unite hanno sconsigliato alla Freedom Flottilla di procedere verso Gaza, dissociandosi in qualsiasi modo dall'iniziativa, nonostante un'inchiesta Onu sull'agguato subito dagli attivisti nel 2010 rilevasse un inconcepibile ed inutile uso della violenza da parte delle forze israeliane.

Grecia: nuovo piano austerity, un governo contro l'intero popolo

Il cappio stringe sempre più al collo della Grecia, un Paese che ora paga debiti contratti da un'oligarchia corrotta e da un'azzardata entrata nell'area euro, per la quale evidentemente non si era preparati


Settimana di fuoco per la penisola ellenica. Dopo aver approvato il piano di austerità da 28,4 miliardi concesso da Fmi e Ue, il parlamento ha adottato la legge di attuazione dello stesso, contenente le misure imposte dai finanziatori del maxi-prestito destinate a realizzare il risanamento delle casse pubbliche. Un piano di rientro da circa 78 miliardi, con il quale il governo Papandreou si impegna per i prossimi cinque anni ad attuare ulteriori tagli alla spesa pubblica per 28,4 miliardi di dollari, aumentare le tasse ed intraprendere un massiccio processo di privatizzazione, che frutterebbe allo Stato circa 50 miliardi di euro.
Dall'Unione Europea, molta soddisfazione verso Atene per le decisioni intraprese, che rappresenterebbero “un importante passo in avanti verso la salvezza”.In Grecia, tranne i responsabili della crisi arroccati nelle mura del parlamento per decidere misure tese a far sprofondare il Paese nel più buio degli abissi, il popolo legittimamente protesta.

A piazza Syntagma “andate a casa, voi e il vostro pacchetto di austerità” è stato gridato talmente forte da raggiungere senza dubbio le orecchie dei governanti, i quali però non hanno voluto ascoltare la voce del popolo. Per l'ennesima volta. Mercoledì 29 giugno, giornata del primo step attuativo del piano d'austerità, i manifestanti in piazza sono giunti da tutta la penisola, uno di loro riflette sul perché di una simile mobilitazione: “Se i nostri politici ci hanno portato fino a questo punto, è perché glielo abbiamo permesso. Ma adesso bisogna reagire”. In piazza ci sono anche i sindacati, che hanno proclamato, per l'occasione, quarantotto ore di sciopero generale. Una Nazione in rivolta contro un parlamento, che dovrebbe essere l'emblema del volere dei cittadini ed invece appare chiaramente sottomesso e costretto al volere di istituti internazionali, il cui reale obiettivo è salvaguardare la stabilità dell'euro, anche a costo di ridurre un Paese alla fame. Il risultato di questo comportamento è la rabbia popolare. Una rabbia che è causato duri scontri tra manifestanti e forze dell'ordine ed è costata cento feriti. Il governo ha ordinato l'apertura di un indagine poiché, secondo immagini trasmesse da una tv privata, sembrerebbe che alcuni poliziotti abbiano collaborato con manifestanti particolarmente indignati. Probabilmente si inizia a percepire il timore che le forze dell'ordine non siano più disposte a ricoprire il ruolo di guardie del corpo per una classe politica che il Paese non appoggia e rifiuta fortemente.


Eleonora Pochi
Fonte: Parolibero

Il terzo settore alza la voce: “Ci servono fondi e ci danno tagli”

Organizzazioni non governative, cooperative sociali, associazioni di volontariato, Onlus devono vedersela con un governo che, invece di elargire agevolazioni ad un settore talvolta supplente delle mancanze statali, non fa altro che tagliare loro fondi e risorse

‘I diritti alzano la voce’ è una campagna nata nel 2009 con l’obiettivo di fare luce sul progressivo smembramento del welfare attraverso iniziative di sensibilizzazione, mobilitazioni, proteste e proposte. Un’iniziativa che coinvolge gran parte degli esponenti del terzo settore, che hanno elaborato il manifesto “Il benessere è un diritto, la disuguaglianza un’ingiustizia” , dal quale si evince il significato della campagna. Tra i principi guida “la riaffermazione del valore della Costituzione e dei diritti di cittadinanza; la denuncia rispetto alla crescita della povertà, delle disuguaglianze, all’uso del diritto penale e del carcere come risposta ai problemi sociali – s’apprende dal testo -; la richiesta di una nuova politica, capace di farsi carico,prioritariamente, del bene comune; il valore del lavoro, dell’istruzione, della salute, della casa, di politiche fiscali progressive, di politiche sociali ancorate a diritti universali ed esigibili”.
Lo scorso giovedì 23 giugno, i sostenitori della campagna e i membri del Forum del Terzo settore, parte sociale riconosciuta e costituita nel 1997,  hanno organizzato una grande giornata di mobilitazione in difesa dei diritti sociali e contro i pesanti tagli ai fondi per le politiche sociali. Gli specialisti del settore denunciano attraverso un’appello, che “i diritti fondamentali non sono più garantiti in molte parti del paese, servizi rilevanti vengono tagliati a causa delle sofferenze di bilancio subite da Regioni ed Enti locali. Il dibattito pubblico, la politica e i media non sembrano avvertire con la necessaria urgenza e forza una questione che riguarda la vita di buona parte degli italiani”.
Il malcontento verso la mancanza di sostegno statale è legittimato dai numeri, che parlano molto chiaro: nel 2008 i fondi nazionali destinati alle politiche sociali erano di oltre 2,5 miliardi, ad oggi ammontano a 538 milioni di euro. Un taglio dell’80% che sta portando alla sciagura una società già colpita massicciamente dalla crisi economica.
La situazione della cooperazione italiana, è anch’essa pessima, anzi peggiore. La vergognosa assenza di risorse fa di un settore che dovrebbe essere un vanto del Paese, il fanalino di coda nelle classifiche internazionali dei donatori. La paralisi della Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo (DGCS) del Ministero Affari Esteri ed il mancato rispetto degli impegni internazionali rendono la vita di Ong e Onlus sempre più impossibile. Molte di queste organizzazioni, nonostante non abbiano neanche più risorse per coprire costi primari, come quelli del personale, continuano a lavorare al fine di mantenere la coesione sociale, evitando forti lacerazioni nel tessuto sociale. Cio’ malgrado, si sente troppo poco parlare di loro, del lodevole lavoro che svolgono con passione e dedizione.  C’è addirittura chi pensa che lavorare per il terzo settore sia questione di ‘semplice’ volontariato.
“Tutti siamo consapevoli delle difficoltà economiche e della crisi che stiamo vivendo anche a livello europeo – spiega Guido Barbera, presidente di Solidarietà e Cooperazione Cipsi, coordinamento di 45 associazioni di solidarietà e cooperazione internazionale, membro della campagna ‘I diritti alzano la voce’ – ma la situazione italiana di riduzione progressiva degli aiuti e di tagli indiscriminati alle risorse per la cooperazione, è frutto di una specifica politica che ha dimenticato di dover essere al servizio di tutti i cittadini e della vita”.

Barbera, una delle personalità più significative della cooperazione italiana, precisa l’importanza dell’aiuto internazionale ed il prezioso ruolo in esso racchiuso: “Si continua a perdere di vista il fatto che la cooperazione internazionale è e resta la politica più economica e più efficace per costruire la sicurezza, una politica fatta di ponti e non di muri, di rispetto e non di rigetto – precisa l’esperto -. La cooperazione italiana non può continuare a rimanere indietro. Di fronte ai profondi mutamenti sociali che stanno avvenendo in questo periodo nel nostro paese. Di fronte ad un risveglio della società civile che ha risposto positivamente alla sfida dei referendum, riconoscendo la centralità dei beni comuni e della protezione dell’ambiente. Di fronte ai difficili scenari che vengono da molti paesi del Mediterraneo e che ci impongono di pensare a politiche di integrazione e accoglienza rispetto ai flussi migratori”.

Rivolgendo un ampio sguardo alla strada percorsa nei decenni dalla Cooperazione allo sviluppo, ci si accorge che c’è ancora molto da fare: “Non esisterà più la cooperazione internazionale così come l’abbiamo conosciuta e vissuta fino ad oggi. La cooperazione era nata per ridurre le diseguaglianze. Oggi dobbiamo prendere atto del suo fallimento e saper cogliere le nuove sfide, rispondendo con scelte coraggiose, di alto livello e prospettiva. È fondamentale lavorare insieme sui beni comuni, ognuno a partire dal proprio territorio, dalle sue realtà, da casa sua” Ci si auspica che le parole di Guido Barbera, l’azione della Campgna ‘I diritti alzano la voce’ e lo splendido lavoro del Forum del terzo settore inducano ad una seria riflessione, al cambiamento, al cambio di rotta.

Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura

Immigrati: nel bagaglio per l’Italia, solo la speranza di protezione

Quando si sta scappando da una guerra, dalla povertà o dalla fame non ci si ferma a pensare che il Paese dove si vuole tanto arduamente arrivare, anche rischiando la vita, non rispetterà il diritto alla protezione internazionale oppure non sarà disposto all’accoglienza

Una folta fila mi si pone innanzi, il caldo comincia a farsi sentire e c’è il rischio che non riesca ad arrivare capofila entro l’ora di chiusura. Mi domando se sono capitata nel giorno ‘no’ oppure se le file interminabili sono la quotidianità. Mi basta girare lo sguardo per chiedere ad una signora vicino che mi toglie immediatamente il dubbio, confermandomi che l’attesa è la prassi; non è la prima volta che viene all’Ufficio Immigrazione di Tor Cervara, a Roma. Mi guardo intorno, scambio due parole con alcuni ragazzi in fila, nella sala profughi e nella sala soggiorno. Mi raccontano brevemente le loro storie e grazie all’ascolto dei loro casi pratici, riesco a sopportare e comprendere il carico di nozioni teoriche che mi saranno date in seguito. Date le recenti vicissitudini che coinvolgono i migranti nordafricani, ho creduto fosse opportuno soffermarsi sulla questione

Il miraggio del diritto di asilo
In risposta all’arrivo di migranti dovuto alla fragile situazione dei paesi nord africani, l’Italia ha emanato un decreto, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’8 aprile 2011, nel quale è stato stabilito che i soli cittadini provenienti dal nord-Africa entrati in Italia dal 1 gennaio 2011 alla mezzanotte del 5 aprile 2011, possono beneficiare di misure di protezione temporanea. In altre parole, è stato loro concesso un permesso umanitario di sei mesi. E’ doveroso precisare che il permesso umanitario non é nulla di nuovo, al contrario di quanto il governo sembrerebbe aver insinuato attribuendosi il merito di un gesto di bontà, anzi é previsto dall’art. 20 del testo unico sull’immigrazione. Per quelli arrivati  dopo il 5 aprile, non c’è nessun permesso umanitario, ma la solita prassi. Se si hanno i documenti, l’autorità di Polizia, dopo aver verificato la validità delle carte presentate, rilascia un visto temporaneo rinnovabile fino alla decisione della Commissione Territoriale, organo delegato al riconoscimento dello status di rifugiato.
Nel caso si giunga senza documenti, come nella maggior parte dei casi dei flussi provenienti dall’altra sponda del mediterraneo, si è obbligati a permanere in centri d’identificazione, o meglio centri d’accoglienza per i richiedenti asilo(C.A.R.A.), un termine che in realtà sarebbe meglio rimpiazzato da un meno soft ma senz’altro più realistico ‘centri di detenzione’, visto il trattenimento coattivo della totalità dei richiedenti asilo in attesa dell’esito della domanda. E’ un po’ il discorso dell’utilizzo del binomio escort-puttana, il primo distinto, il secondo effettivo.
Per il riconoscimento dello status di rifugiato si deve dimostrare, tramite un’accuratissima dichiarazione stilata con l’aiuto di assistenti sociali, che sussista un fondato timore di persecuzione.

La legge italiana è diseguale per tutti
La normativa italiana non prevede forme di asilo per coloro che sono costretti a fuggire dal proprio paese a causa di conflitti bellici in corso o gravi disordini interni, a meno che non siano vittime di persecuzioni individuali.
La legge 40/98 sull’immigrazione, prevede pero’ che con decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, possano essere stabilite misure di protezione temporanea nel caso di imponenti esigenze umanitarie, conflitti particolarmente intensi o gravi calamità naturali. Proprio quel decreto emanato poco tempo fa.
Ora, c’è da chiedersi qual è il metro di misurazione che il Consiglio dei Ministri adotta per quantificare l’imponenza di una crisi umanitaria oppure della gravità di un conflitto. Questo procedimento sembrerebbe studiato, in pratica, per scegliere chi accogliere e chi no, in base al ritorno o agli interessi italiani verso il paese di turno.
Nell’ordinamento giuridico italiano, ad oggi, non esiste neanche una legge nazionale organica sul diritto di asilo, menzionato esclusivamente all’art. 10 della Costituzione: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Pertanto i criteri di riconoscimento dello status di rifugiato rimandano all’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951.
Da oltre 30 anni assistiamo ad una frenetica globalizzazione, per la quale merci e capitali non hanno frontiere, né tanto meno limiti. E’ avvilente appurare che l’unico ad avere ancora fortissimi vincoli, sia proprio l’essere umano.

Eleonora Pochi

05/07/11

Ed ora il referendum sulla legge elettorale: “Io firmo. Riprendiamoci il voto”

Quando il parlamento non rappresenta più il popolo, l’unica possibilità per i cittadini è di far sentire la propria voce a colpi di referendum

Il successo dei referendum appena conclusi è una chiara avvisaglia di un contrasto d’intenti tra il popolo e il governo. L’Italia vuole una cosa, ma la classe politica se ne propone un’altra e se l’unico, o meglio l’ultimo, metodo per fermare l’attuazione di leggi canaglia è il voto popolare, allora che referendum sia.
Questa volta si cerca di modificare l’attuale legge elettorale, il cosiddetto ‘Porcellum’ in vigore dal 2006 e concretizzato principalmente da Calderoli, eliminando il premio di maggioranza, le liste bloccate, fissando una soglia di sbarramento unica al 4% ed eliminando l’indicazione del candidato premier. Queste, le misure correttive per ristabilire un equilibrio accettabile nel nostro sistema politico-istituzionale.

Per comprendere i disagi dell’attuale normativa elettorale non occorre chissà quale geniale intuizione. Il blocco delle liste, priva realmente gli elettori del diritto di scegliere i propri rappresentanti in parlamento. La clausola del premio di maggioranza concepita per ottenere maggiore governabilità con un’ampia maggioranza, in realtà oggi attribuisce tutto il potere decisionale ad una parte del parlamento ed è inoltre differente tra Camera e Senato. La soglia di sbarramento al 2% provoca un’eccessiva frammentazione, mentre aumentandola al 4% si otterrebbe la partecipazione di partiti politici più rappresentativi e saldi, nelle quali si unirebbero realmente le forze minori, evitando la confusione delle attuali coalizioni, stabili quanto un castello di sabbia. L’indicazione del candidato premier sulla scheda elettorale è una scelta che spetta rigorosamente al Presidente della Repubblica, come sancito dalla Costituzione, che deve deliberare in assoluta autonomia.

La campagna referendaria “Io firmo, riprendiamoci il voto” è stata lanciata giovedì scorso a Roma, dal Comitato per il Referendum sulla Legge Elettorale, promosso, tra gli altri, da Stefano Passigli, politologo ed ex parlamentare. Da oggi parte la raccolta firme, con l’obiettivo di raggiungere entro fine settembre le 500 mila sottoscrizioni necessarie per presentare il referendum alla Corte di Cassazione. I tempi sono necessariamente molto stretti: se entro il 30 settembre ci sono firme a sufficienza, la Cassazione potrà deliberare la validità dei quesiti referendari già il mese successivo, permettendo ai cittadini di votare nella primavera 2012.
Secondo il Comitato, la decisione di richiedere un referendum è inevitabile, giacché non sussiste nessun riscontro positivo dal parlamento circa la modifica del ‘Porcellum’: “Ogni tentativo di modifica della legge è destinato a fallire e l’unico modo per eliminarne i difetti è tagliare i quattro punti più discussi. Se il Parlamento riuscirà a trovare un accordo, tanto meglio” auspiacano i promotori dell’iniziativa, altrimenti “il referendum è inevitabile”.

Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura

01/07/11

Debtocracy, presente greco e futuro italiano

Un documentario prodotto da due giornalisti, Katerina Kitidi e Aris Hatzistefanou, che svela gli altarini dell'attuale crisi mondiale, soffermandosi sul meccanismo che ha spinto la Grecia al vassallaggio verso FMI e BCE, perdendo così la sovranità nazionale

Questa volta occorre una piccola premessa. Benché il cortometraggio sia uscito più di un mese fa, abbiamo ritenuto giusto parlarne dal momento che i media italiani, più o meno volutamente, hanno scelto di tacere, forse presi da un raptus d'oblio. Ciò che si evince da poco più di un'ora di filmato è allarmante. E' spaventosamente speculare alla situazione italiana, fornendo un chiaro presagio di quello che il nostro Paese sarà costretto ad affrontare, un preavviso forse troppo chiaro per essere diffuso. In fondo noi italiani siamo un popolo apprensivo. Non serve essere un economista, il linguaggio utilizzato in Debtocracy, una volta tanto, è comprensibile anche ai comuni mortali, esponendo in maniera chiara e concisa il processo che ha portato alla crisi attuale e le cause principali.
Iniziamo col dire che, come la Grecia, siamo uno dei paesi PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) dell'Unione Europea. L'acronimo ha, inoltre, il significato di paesi maiali, a causa del cattivo stato delle loro economie. “A differenza degli USA, dove la Banca Centrale opera per diminuire le diseguaglianze tra Stati, in Europa le diseguaglianze sono state amplificate, generando dei 'parenti poveri', i PIIGS, i maiali dell'integrazione europea”.
Dunque come Wallerstein classificò il sistema mondo in centro (paesi sviluppati) e periferia (paesi sottosviluppati), anche l'Europa può essere considerata in tale ottica. “L'Eurozona ha distrutto il sistema immunitario dei Paesi della periferia europea, esponendoli ai rischi più gravi della crisi mondiale. Il tallone d'Achille di questi Stati è il deficit e il debito pubblico”.

In Grecia, l'ascesa politica di G. Papandreou ha dato il colpo finale all'economia. Dopo aver posto le basi di uno Stato sociale, senza aumentare le tasse alle corporazioni e ai redditi alti, mettendo al sicuro posti di lavoro con la nazionalizzazione delle compagnie private in perdita, è emerso il raccolto della sua semina, contaminata dalle precedenti politiche del primo ministro Costas Karamanlis, che già fecero esplodere il debito, preparando l'economia al collasso.
Quando il debito raggiunge il 167% del Pil, bussa precipitosamente alla porta di casa il FMI, accolto a braccia aperte da Papandreou. “Il FMI è rappresentante nel mondo delle classi favorite dalle trasformazioni neoliberiste, il cui obiettivo di aumentare i guadagni ha portato alla crisi attuale. […] Non solo le misure imposte al governo greco sono ingiuste e pericolose per la popolazione, ma sono destinate a fallire. Come in Argentina, l'obiettivo delle misure non è di salvare l'economia, ma di proteggere banche e grandi società. Il debito continuerà a crescere”.
Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea hanno imposto alla Grecia un terribile piano di austerità in cambio del maxiprestito da 110 miliardi concesso nel maggio 2010. Ad oggi, l'UE teme il default ed impone alla penisola ellenica tagli ancora più consistenti alla spesa pubblica, un ulteriore aumento delle tasse e la svendita di beni statali. “Tutti i Paesi che sono stati 'sostenuti' dal FMI hanno avuto conseguenze drammatiche in termini di speranza di vita. Ci sono Stati in cui è calata di 5 o addirittura 10 anni”.
Migliaia di cittadini greci pagheranno miliardi di debiti, frutto di corruzione ed interessi di una stretta cerchia di persone: “La risposta del governo viola i principi più basilari della democrazia. I cittadini si ribellano”. Il problema della Grecia, s'apprende dal video, è che ha perso la sovranità nazionale, “siamo diventati vassalli. Il governo si è messo contro i suoi cittadini, portando fame e povertà per almeno 20 anni”.