08/10/13

Street art in Palestina: la lotta di chi impugna uno spray

Hamza Abu Ayyash, classe ’81, è uno street artist che vive a Ramallah, in Cisgiordania. “Ho cominciato verso i 12 anni. Inizialmente mi limitavo ad imprimere la mia tag su un muro, con il passare degli anni ho deciso di prestare più attenzione ai graffiti, migliorandomi quotidianamente. E’ per questo che ho studiato belle arti all’An-Najah National University, nella città di Nablus”.

Hamza ha le idee molto chiare. Supporta con la sua professionalità la causa palestinese, in particolare denunciando la questione dei prigionieri civili nelle carceri israeliane. Gli chiedo se hai mai dipinto sul muro di separazione e mi colpisce la sua profonda osservazione: “Non credo che sia positivo fare graffiti sul muro di separazione. Sono contro qualsiasi iniziativa artistica sul muro perché dovrebbe rimanere così com’è, brutto. Quando si fanno degli artwork sul muro in un certo senso è come se si accettasse la sua esistenza. Non ho niente a che fare con me quel muro, è stato costruito contro la nostra volontà. E’ una gabbia che ci tiene intrappolati. E non si può neanche paragonare al muro di Berlino, perché questo è il muro dell’apartheid, non un muro costruito tra due parti della stessa nazionalità”. Hamza spiega che in Palestina l’uso di vernice e spray sul muro proviene da lontano: “I primi graffiti palestinesi sono apparsi nel 1950 in Libano, nel campo profughi Ain El Helwe per mano di un giovane ragazzo che è diventato il più famoso vignettista palestinese, Naji Al Ali. Cominciò a rappresentare sulle pareti del campo la sua speranza di ritornare in Palestina, di liberare il suo Paese dall’oppressione. Tornò a disegnare nel 1987, durante la prima Intifada, per diffondere quelle notizie che non arrivavano al popolo palestinese, poiché preventivamente censurate da Israele. Tutt’oggi i graffiti in Palestina hanno un carattere più politico che artistico”. Naji Al Ali è, tra le altre cose, l’inventore dell’ Handala, divenuta simbolo della lotta non-violenta portata avanti dal popolo palestinese. “L’Handala è “nata” nel 1969 in Kwait” ricorda Hamza. Quel piccolo con le spalle al pubblico, poichè lo sguardo è sempre rivolto alla Palestina.

Per quanto riguarda l’hip hop, l’artista racconta di avere molti amici MC e di aver collaborato e collaborare 
ad oggi con molti di loro. “I Graffiti intesi come ‘hip hop’ sono nati da qualche anno. Sai che l’hip hop in Palestina è giovane, si sta diffondendo a macchia d’olio, ma si è radicato da qualche anno”. Nei mesi scorsi Hamza è stato molto attivo, dipingendo numerose mura in merito ai prigionieri palestinesi. Li raffigura quasi sempre forti e senza volto. La sua tag è “7mz” e qualche volta “Crazy Horse”. Hamza ha cominciato a fare tatuaggi dallo scorso febbraio. Ci tengo a mostrargli il murales “Free Palestinese” – scritto in arabo – realizzato lo scorso anno a Roma da writers italiani e gazawi , in occasione dell’incontro con il convoglio “Vik to Gaza”. Mi chiede: “Ricordi la t-shirt che Vittorio usava indossare, che raffigurava una corona di spine? Quel disegno lo ho realizzato io”. Mi rendo conto che il mondo è grande, ma l’umanità riesce sempre a trovare un modo per incontrarsi. Come se certe persone fossero tasselli di un puzzle incantevole ma dannatamente raro, che se capti la giusta frequenza hai la fortuna di trovarle. E parlandoci scopri che sei stata attratta dalla loro energia poiché fanno parte della cricca che tenta di “restare umani” costi quel che costi. Chiedo ad Hamza cosa rappresenta quel disegno: “Sta a significare‘Gaza sempre nella mia mente’. Ho ancora qualche maglia. Te ne conservo una per quando tornerai in Palestina”.



Eleonora Pochi
Fonte: Moodmagazine

02/10/13

Hebron, il lato oscuro degli Accordi di Oslo

Shuhada Street, dal 2000 strada proibita ai palestinesi della città, nei racconti e le testimonianze dei residenti.


La strage della moschea di Hebron è una ferita ancora aperta nei cuori dei palestinesi della città. Poiché oltre al danno, hanno dovuto subire anche la beffa di vedersi ancor più discriminati per "ragioni di sicurezza" da parte dell'esercito israeliano. E poi in seguito al Protocollo di Hebron, siglato nel 1997 da Israele e OLP, in conformità con gli Accordi di Oslo del '95, la città è diventata una città fantasma, divisa in due settori: H1, governato dalle autorità palestinesi, ed H2, sotto il controllo dell'esercito israeliano.

Il protocollo prevede la riapertura di una delle vie strategiche della città, Shuhada Street, ma le autorità israeliane non stanno tuttora rispettando quanto stabilito dall'accordo. "Nonostante sia un negoziato ingiusto, noi abbiamo rispettato i patti. Israele assolutamente no", sottolinea un abitante della zona H2. I palestinesi che vivono in H2 hanno un codice identificativo e molti di loro sono stati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni a causa dei ripetuti attacchi da parte dei coloni e dell'esercito. Le autorità israeliane hanno ordinato la chiusura di alcuni negozi gestiti da palestinesi solo perché erano vicino alle colonie.

Bilal Anwar, funzionario del Comune di Hebron, spiega: "Da quando nel 1994 Baruch Goldstein, un estremista israeliano, uccise ventinove palestinesi mentre stavano pregando nella moschea di Abramo, l'esercito israeliano temette rappresaglie contro i coloni residenti ad Hebron e dintorni. Fu così che le strade vennero chiuse ai veicoli palestinesi e poco più tardi Shuhada Street, principale via del commercio urbano, fu proibita ai palestinesi, che tuttora non possono neanche attraversarla a piedi".

"I palestinesi che vivono nella zona - sottolinea Bilal - sono costretti a passare sui tetti per raggiungere i loro vicini. Inoltre, subiscono violenze e molestie da parte dei coloni e dei soldati. E' la società civile a muoversi attivamente e pacificamente contro tutto questo, attraverso associazioni e comitati. Alcuni gruppi provenienti dalla Palestina e da Israele hanno lanciato una campagna sul web, coinvolgendo molti paesi nel mondo, per chiedere la riapertura di Shuhada Street, la tutela dei diritti civili e la fine dell'occupazione".

La scorsa settimana ha suscitato sdegno il video pubblicato su Youtube nel quale alcuni soldati israeliani, armati e in uniforme, ballavano a un matrimonio palestinese in città. Ma non va sempre così "bene" a Hebron. Ahmad Alrajabi, un ragazzo palestinese che vive nella zona H2, racconta: "Ero con la mia famiglia a casa di mio padre. Stavamo celebrando il matrimonio di mio fratello quando arrivarono un gruppo di coloni, irruppero in casa, sfondarono tutto e naturalmente fecero saltare il matrimonio. Per mio fratello quello doveva essere il giorno più bello della sua vita, ma è stato uno dei più brutti in assoluto".

Ahmad studia Comunicazione multimediale all'Università, ma per raggiungere la sua facoltà deve attraversare ogni giorno due checkpoint: "Vivo nella zona H2, l'Università dista al massimo cinque minuti a piedi da casa mia, ma Israele non permette ai palestinesi di passare per Shuhada Street. Siamo costretti a prendere il taxi, che vuol dire quasi mezzora di tragitto e due dollari per corsa, un importo molto alto per noi palestinesi che abbiamo redditi decisamente bassi".

Un altro ragazzo palestinese residente nella zona H2 - anche lui come Ahmad studente di Comunicazione e Media all'Università - fa il volontario in una radio locale, si occupa di una trasmissione per i giovani. Anche lui per andare all'Università è costretto a prendere un taxi perché gli è impedito di passare per Shuhada street. Vuole fare il giornalista e non sembra intimorito dal fatto che siano stati uccisi molti giovani cronisti in Palestina. Gli piace anche cantare, ha scritto e registrato alcune canzoni dedicate alla Palestina e alla sua città. E a Hebron questi ragazzi crescono faccia a faccia con la violenza disumana dell'esercito israeliano. 

Eleonora Pochi
Fonte: Nena News