21/11/11

Francesco Azzarà e Rossella Urru, ostaggi per la pace

Dei due cooperanti rapiti in Africa non si hanno notizie. Francesco in mano ai sequestratori da tre mesi e Rossella, sequestrata da Al Queida, entrambi colpevoli di aver fatto la scelta, difficile ma onorevole, di lavorare concretamente contro la violenza

Rosella Urru
Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre,Rossella 
Urru,ventinovenne e collaboratrice del Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli), è stata rapita in Algeria. La cooperante operava nei campi profughi Sahrawi, che accolgono le tribù in fuga dalla regione del Sahara Occidentale, loro territorio, sotto assedio marocchino da ben trentasei anni. Nonostante l’occupazione illegittima, la lotta per l’autodeterminazione condotta dal popolo Sahrawi è stata sempre pacifica ed ha ottenuto, gia dal 1966, il riconoscimento del Polisario, Fronte Popolare di Liberazione di Saguia el Hamra e Río de Oro, e l’autorizzazione dell’ONU per organizzare un referendum, che ancora deve realizzarsi a causa dell’invasione del Marocco, contrario all’autodeterminazione dei Sahrawi giacché mira al controllo delle risorse della regione. Da oltre trenta anni, non si erano mai verificati episodi di violenza da parte dei Sahrawi nei confronti di operatori umanitari che supportano la loro causa ed assistono i loro profughi. Il rapimento sembrerebbe spiegarsi con la presenza di uomini di Al Qaeda, che sono riusciti ad infiltrarsi tra i Sahrawi a causa di frange colluse del Polisario. Rossella, insieme a due cooperanti spagnoli, Ainhoa Fernandez de  Ricon dell’Associazione “Amici del popolo Sahrawi” e Enric Gonyalons, dell’organizzazione Mondobat è stata sequestrata da membri di Al Qaeda.

A parte rare note di solidarietà giunte dalle istituzioni romagnole, giacchè la Urru è nata in Sardegna e poi si è trasferita in Emilia Romagna, quasi niente è stato fatto concretamente per il rilascio dell’operatrice umanitaria. I familiari della ragazza hanno deciso di aprire un blog per  “raccogliere e condividere in un unico spazio, libero e aperto a tutti, le numerose testimonianze per l’immediata liberazione di Rossella”. Nonostante l’Unità di Crisi della Farnesina, il cui compito istituzionale è di tutelare gli interessi degli italiani all’estero in situazioni di emergenza, si dica costantemente al lavoro per ottenere la liberazione della Urru e si mantenga in costante contatto con la famiglia della ragazza, non sono stati ancora ottenuti risultati. Non poteva mancare Emergency, organizzazione umanitaria anch’essa angosciata dal rapimento di Francesco, a dare supporto al Cisp e alla famiglia di Rossella: “La nostra organizzazione in questo periodo sta subendo la stessa pressione: il 14 agosto scorso Francesco Azzarà, elogista di Emergency, è stato rapito in Sudan e ancora non si hanno notizie di una sua possibile liberazione entro breve” s’apprende da una nota della presidente Cecilia Strada. Il sequestro di Francesco ha avuto luogo a Nyala, capitale del sud Darfur, durante il viaggio in auto verso l’aeroporto. Da tre mesi il volontario è nelle mani dei rapitori, ma anche di lui, come di Rossella, i media non si occupano molto, come non si occuparono di Vittorio Arrigoni durante il seppur brevissimo rapimento, casomai  si parlo’ molto di Vittorio, per qualche giorno, dopo la sua morte e poi di nuovo il vuoto. Come fossero figure che agiscono nell’ombra di in contesto isolato, talmente lontano da noi da non sforzarci neanche di capire come e perché ci sono italiani che rischiano la vita per aiutare pacificamente persone in seria difficoltà. Questi sono gli italiani che rimandano a quell’orgoglio patriottico, ad oggi indubbiamente depredato.

Eleonora Pochi

16/11/11

I giovani palestinesi: “Basta all’ipocrisia delle istituzioni internazionali”

Con il riconoscimento all’Unesco, la Palestina ha raggiunto un buon risultato. Ma c’è ancora molto, anzi moltissimo, da fare
  
L’Unesco ha riconosciuto la Palestina come Stato membro ed è subito caos. A parte la perenne astensione italiana al voto sulle questioni palestinesi, è l’arrogante reazione di Usa e Israele che suscita particolare ed ulteriore indignazione. Washington, definendo “inaccettabile” l’ammissione della Palestina nell’agenzia culturale delle Nazioni Unite, ha bloccato i fondi destinati all’organizzazione, pari a 60 milioni di dollari. Dal canto suo, Israele ha stabilito di accellerare l’incessante progetto di colonizzazione, che prevede la costruzione di 2000 nuove abitazioni, tra Gerusalemme ed il sud di Betlemme, prima città che sarà proposta all’Unesco per essere riconosciuta “patrimonio dell’umanità”. Netanyahu, oltre che tagliare anch’egli i fondi destinati all’Unesco, ha sospeso il trasferimento di fondi derivanti da tasse e dazi per circa 100 milioni di dollari destinati ai Territori Palestinesi, com’è successo già in primavera, in occasione dell’accordo di riconciliazione Fatah-Hamas.

I  siti che beneficeranno del riconoscimento Unesco potranno essere tutelati e
mantenuti finanziariamente dall’agenzia internazionale. In altre parole, Israele non potrà più bombardare e distruggere alla cieca, almeno alcuni luoghi saranno “protetti” dall’Unesco. Si continuerà a bombardare villaggi, demolire abitazioni, uccidere indistintamente uomini, donne, bambini, distruggere reti elettriche, idriche e fognarie per destabilizzare la quotidianità del popolo arabo, impedire gli spostamenti di Palestinesi. Tutto questo grazie al benestare anzitutto degli Usa, che da anni fornisce tecnologie e aiuti alle forze armate israeliane, poi da gran parte d’Europa, prima tra tutte l’Italia, che sostiene economicamente, politicamente e militarmente il governo sionista. La scorsa settimana, per dire la più recente, è stato concessa in Sardegna un’esercitazione congiunta delle aviazioni italiana e israeliana.
Uno Stato canaglia, propenso all’annientamento del popolo palestinese, che agisce in piena violazione del diritto internazionale ed in palese contrasto con i diritti umani fondamentali, responsabile di un blocco criminale imposto sulla Striscia di Gaza, calorosamente accolto in casa nostra. I giovani palestinesi della West Bank, hanno dichiarato in un comunicato rivolto all’Onu: “A scuola, all’Università e attraverso le nostre organizzazioni, abbiamo appreso i diritti umani e il diritto internazionale, eppure sembra che i palestinesi rientrino in una classe di persone a cui questi diritti non si applicano – s’apprende dalla nota in rete -. Come i neri in America mezzo secolo fa, o in Sud Africa due decenni fa, siamo vittime di un’ideologia che mira all’esclusione e di quelli che la tollerano e la rendono possibile. Infatti, le voci che parlano con più vigore di diritti umani, libertà, Stato di diritto, sono le stesse che rendono possibile la sistematica violazione dei principi che professano. Siamo stanchi – continuano i giovani palestinesi – di ascoltare queste istituzioni ipocrite, che rispettano il nostro popolo solo a parole, calpestando i nostri diritti e le nostre aspirazioni. Cosa ci guadagna l’ONU a condonare questa ipocrisia, questo doppio gioco e le sistematiche violazioni delle sue stesse leggi e principi? ”.


Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura

08/11/11

Morti bianche in aumento, una strage nascosta

Intervista a Carlo Soricelli, fondatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna: “Anche per i caduti sul lavoro andrebbero celebrati i funerali di Stato”
  
Dal 2006 ad oggi, secondo dati Anmil, sono oltre cinque milioni gli infortuni sul posto di lavoro e di essi oltre 200.000 hanno arrecato un’invalidità permanente. Sempre negli ultimi cinque anni, oltre 7.000 morti bianche testimoniano un latente stillicidio, di cui sembrano accorgersene solo le famiglie delle vittime, che, nella maggioranza dei casi,  hanno perso un loro caro a causa dell’inadempienza dei datori di lavoro o della scarsa tutela alla sicurezza di lavoratori autonomi e informali. Sembra dunque fuori luogo, o meglio fuorviante, definirle “morti bianche”, dove bianco allude all’assenza di un diretto responsabile dell’incidente. La disattenzione verso un fenomeno cosi’ grave, ha portato alla nascita dell’Osservatorio Indipendente di Bologna, organizzazione che monitora costantemente la situazione reale dei caduti sul lavoro, analizzando il fenomeno ed includendone tutte le componenti, a differenza dell’Inail che omette dai calcoli le morti dei lavoratori in itinere, in nero ed informali. Carlo Soricelli, fondatore dell’Osservatorio di Bologna, ci ha aiutato a circoscrivere cause e conseguenze del fenomeno.

Come e perché nasce l’Osservatorio Indipendente di Bologna?

Dopo la morte dei sette operai alla Thyssenkrupp di Torino, cercavo notizie aggiornate in rete sull’ampiezza del fenomeno “morti sul lavoro” e mi accorsi che i dati riportati riguardavano periodi di tempo conclusi da mesi oppure si basavano sull’anno precedente. Decisi così di creare un Osservatorio, nato nel gennaio del 2008, per monitorare le morti sul lavoro nel nostro Paese. Attraverso un blog si informano costantemente i cittadini sulla reale situazione delle morti bianche, dietro le quali ci sono tantissimi interessi economici, politici e d’immagine. L’Osservatorio di Bologna, a differenza di altre fonti, ha la massima libertà ed indipendenza.

A differenza dei dati diffusi dall’Inail, l’Osservatorio ha recentemente sottolineato come il 2011 sia un anno all’insegna del peggioramento, in riguardo alle morti bianche. Come mai questa discrepanza nelle analisi?

Già dallo scorso anno avevamo registrato un peggioramento rispetto al 2009, pari ad un aumento delle morti bianche nel 2010 del 5,1%. Quest’anno sta andando ancora peggio, visto che siamo già allo stesso numero di morti sul lavoro del 2009(554 contro 555) ed al 27 ottobre si registrano 12 morti in più rispetto lo stesso giorno del 2010. Occorre precisare che nel presente calcolo non sono inclusi i lavoratori in itinere morti sulle strade, che farebbero raddoppiare il numero delle vittime.
L’Inail inserisce tra le vittime solo i suoi assicurati, che rappresentano una parte delle morti bianche, escludendo militari, lavoratori in nero, gli agricoltori “informali” che muoiono in tarda età schiacciati dai loro trattori, i lavoratori in itinere e potrei continuare ancora… Dalle statistiche ufficiali sfuggono almeno il 20-25% delle morti bianche. L’Osservatorio non fa questo genere di distinzioni nell’elaborazione dei dati: se una persona muore lavorando, per noi è un morto sul lavoro.

A differenza di quanto si crede, l’industria non è il primo settore nella lista nera delle morti sul posto di lavoro, bensì è l’Agricoltura. Soprattutto la cosiddetta ‘agricoltura informale’ miete il maggior numero di vittime. Può spiegarci questo fenomeno?

Sono categorie emarginate e poco sindacalizzate. La maggioranza delle morti in Agricoltura sono causate da trattori “killer”, che uccidono centinaia di coltivatori . Non è un fenomeno circoscritto ma riscontrabile in tutto il Paese, sono morti che hanno poca risonanza mediatica. Ad oggi, considerando solo il 2011, sono già 105 gli agricoltori morti perché schiacciati dal trattore. Basterebbero pochi interventi mirati per salvare tantissime vittime.

Quali misure dovrebbero essere adottate dalle istituzioni per contrastare questo fenomeno?

I vecchi trattori dovrebbero essere rottamati per permettere ai coltivatori di acquistarne altri con cabine protette. Andrebbero poi introdotti incentivi: gli anziani agricoltori, tra l’altro, dovrebbero essere sottoposti obbligatoriamente a visite mediche che attestino l’idoneità alla guida, considerando anche che il territorio italiano è in pendenza e i riflessi poco pronti non lasciano scampo in caso di manovra errata. Il 60% delle morti bianche appartiene ai settori dell’Edilizia e dell’Agricoltura. Sono lavoratori per lo più meridionali e stranieri ed anche nei cantieri del Nord, gestiti talvolta da piccole aziende, è registrato un livello di sicurezza inesistente.

Sarebbe giusto, secondo lei, celebrare funerali di Stato per i lavoratori morti sul posto di lavoro?

Certo. Sono martiri del lavoro, solo così si capirebbe cosa c’è veramente dietro ad ogni ‘morte bianca’.

Perché interessa più un delitto passionale piuttosto che un lavoratore morto mentre esercitava il suo mestiere?

Le persone che non vivono da vicino queste tragedie, percepiscono come “normale” il fatto che nel Paese ci siano morti sul posto di lavoro, ma madri, padri e fratelli delle vittime, sono costretti a vivere una tremenda disgrazia, portando dentro loro un’eterna disperazione: sanno che non è stata la fatalità a causare la morte di un loro familiare, bensì leggerezza verso l’incolumità dei lavoratori e lo sfruttamento al quale sono costretti.

Perché le istituzioni (e i media) tendono a sminuire un simile fenomeno?

Anche loro percepiscono la questione come “normalità”, tranne casi come quello della Thyssen e di Barletta che meritano le prime pagine in quanto notizioni, dimenticati il giorno dopo. Continua silenziosamente l’incessabile stillicidio che provoca oltre mille morti all’anno.


Fonte: Osservatorio Indipendente di Bologna




Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura

07/11/11

Il SIAM ai musicisti indipendenti: “Aprite gli occhi”

Per i lavoratori del mercato musicale non vita facile, specialmente in tempo di crisi. Parla Indiana Raffaelli, dal Sindacato Italiano Artisti della Musica


Svolgono un lavoro come un altro, i musicisti, ma sono da sempre stati considerati come persone che nel perseguire la loro passione, vogliono ricavarci pure profitto. In realtà, non la si può così generalizzare. Spinti, più o meno volontariamente, al margine del mercato lavorativo a causa di un’intrinseca discriminazione da parte dei più disparati attori sociali, colpevoli di scegliere di fare il lavoro che più gli piace e per il quale si dimostra maggior attitudine e, proprio per questo, vittime di chi specula sulla loro motivazione sottopagandoli o offrendo loro inammissibili accordi lavorativi. Non hanno la possibilità di essere tutelati da un contratto di categoria, ne tanto meno da tariffari.

La quasi totalità dei musicisti indipendenti non riesce a sfamarsi di musica, ma è costretta a dover associare al lavoro principale, ossia che assorbe la maggior parte dell’impegno quotidiano, almeno un altro. Qui, nel settore musicale, la crisi si sente amplificata. Mentre le major monopolizzano il mercato, decidendo chi e come deve avere l’attenzione del pubblico nazionale ed estero, i musicisti autonomi arrancano tra la pirateria informatica, la difficoltà nel riuscire a realizzare live-show e un apparato rappresentativo di categoria che fatica a far sentire la propria voce. Tra gli enti che si impegnano a preservare i diritti dei musicisti c’è il Sindacato Italiano Artisti della Musica che tiene viva la richiesta alle istituzioni di un’adeguata regolamentazione per tutti i lavoratori dello spettacolo. Abbiamo avuto il piacere di parlare con Indiana Raffaelli, sindacalista SIAM, per approfondire alcune problematiche del settore musicale.

A fronte della situazione attuale, quali sono nello specifico le richieste del sindacato alle istituzioni?

A sinistra, Indiana Raffaelli
Il SIAM nasce con l’obbiettivo di costruire un sistema welfare, attualmente inesistente nel nostro Paese, che garantisca un’adeguata tutela per i musicisti freelance. Per questo chiediamo un adeguamento dell’attuale legislazione alla realtà delle professioni sceniche e quindi il riconoscimento dei musicisti come lavoratori, pur nella ambiguità esistente fra autonomi e dipendenti. Invece, dopo che si è molto parlato della necessità di  estendere il diritto ad usufruire di ammortizzatori sociali anche per le categorie meno considerate, è giunta una sentenza della Cassazione che esclude tutti gli artisti dalla possibilità di godere dell’indennità di disoccupazione, sulla base di un regio decreto del 1935. E’ evidente che una regola scritta in un contesto sociale totalmente differente, che forse all’epoca avrebbe potuto trovare una sua ragion d’essere, oggi è totalmente inadeguata e discriminatoria, escludendo dall’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti anche quei pochi artisti che fino ad oggi, lavorando con contratti subordinati e versando gli specifici contributi, potevano richiederla. Ci uniamo insieme a molti altri enti ed artisti nel richiedere con forza l’abrogazione di questa norma.

Rispetto all’estero, quali sono gli svantaggi di essere un musicista in Italia, oltre il fatto di essere quasi sempre visti come “persone che nel perseguire la loro passione, vogliono ricavarci pure profitto”?

In primo luogo la mancanza del rispetto dovuto al musicista in quanto lavoratore. Qui, come ha giustamente detto, chi fa il musicista o viene considerato un dilettante: “Si esibisce facendo quello che gli piace e  vuole pure essere pagato”, oppure viene accomunato alla figura della “star”,  e quindi si pensa che possa godere di guadagni milionari.

Manca poi , come dicevamo, una legislazione adeguata alla  specificità del lavoro artistico, che è un lavoro atipico: i francesi ci hanno  ben definito come “lavoratori intermittenti” ed hanno approntato un efficiente sistema di ammortizzatori sociali che, riconoscendo la necessità dei periodi  trascorsi in studio e di preparazione, permette di svolgere l’attività artistica a tempo pieno. Molti altri paesi hanno approntato misure che favoriscono il lavoro artistico, con sgravi fiscali per i lavoratori o gli investitori, con una costante formazione e garantendo supporto all’inserimento nel mondo del lavoro, anche con aiuti economici.

Come l’attuale crisi ha colpito il settore musicale?

Occorre una piccola premessa. Per quanto riguarda alcuni fenomeni ad oggi evidenti in tutti i settori produttivi, noi siamo stati un terreno di sperimentazione. Ad esempio, siamo stati fra i primi a cui è stato chiesto di aprire Partita Iva benché percepissimo introiti miserrimi e nonostante si svolga un’attività che presenta tutte le caratteristiche del lavoro dipendente. La delocalizzazione ha portato all’estero una grandissima parte del lavoro di registrazione di colonne sonore e l’uso di appalti esterni per le trasmissioni televisive non ha abbassato i costi, ma ha ridotto i diritti ed i compensi dei musicisti.
Oggi la crisi ci colpisce in vari modi. Le amministrazioni locali tirano avanti con budget quasi inesistenti e quindi hanno drasticamente ridotto la loro funzione di promotori culturali, tagliando risorse ai festival e a tutte le attività delle piccole associazioni, importantissime per una diffusione capillare della cultura musicale sul territorio nazionale. I tagli al Fondo Unico per lo Spettacolo hanno ridotto l’impiego di lavoratori aggiunti nelle compagini orchestrali stabili, gli sponsor privati sono più cauti nel finanziare attività musicali e quando lo fanno, preferiscono puntare sui grandi nomi, che assicurano un ritorno pubblicitario sicuro. Restano quindi escluse la maggior parte delle realtà medio-piccole, senza le quali si va sempre più verso una cultura fatta di cattedrali nel deserto e di sporadici eventi.

Come può un musicista emergente tutelarsi da solo di fronte circostanze lavorative inadeguate?

La solitudine crea debolezza e forse una delle principali cause dell’attuale mancanza di tutele per i musicisti sta proprio nella tendenza di chi fa musica ad isolarsi, a coltivare l’illusione di una specie di “meritocrazia” che dovrebbe far sfondare i più bravi, a considerare se stessi più “artisti” che lavoratori. Un musicista difficilmente ha approfondite conoscenze giuridiche, e quindi la autotutela individuale è abbastanza difficile, anche perché il mercato attuale del lavoro musicale è profondamente deregolamentato e privo di controlli, così i giovani sono facile preda di pseudoimpresari e talent-scout senza scrupoli. Il consiglio che posso dare, è quello di aprire bene gli occhi, non farsi lusingare da promesse fumose, non lavorare gratis nella speranza di ottenere in  futuro chissà cosa, e cercare di sviluppare una coscienza collettiva.

So che è una brava musicista, che messaggio vuole lasciare ai giovani  e meno giovani che quotidianamente fanno i conti con la giungla del mercato  musicale?

Diamoci da fare tutti insieme per cambiare il nostro settore: dove ci sono più tutele e maggior rispetto tutti lavorano, creano in libertà e vivono meglio. La  deregolamentazione aiuta soltanto i più potenti.

Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura