13/11/13

RAI: Pornografia umanitaria

“The Mission” è il reality umanitario prodotto dalla RAI in collaborazione con l’Alto Commissariati delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) e l’organizzazione non governativa italiana Intersos per far raccontare la sofferenza dei rifugiati in Sud Sudan, in Repubblica Democratica del Congo e in Mali ad alcuni VIP tra cui Emanuele Filiberto, Paola Barale, Michele Cucuzza, Barbara De Rossi, Al Bano. Il primo episodio verrà trasmesso il 27 novembre e il secondo il 4 dicembre.


FIRMA LA PETIZIONE: http://www.change.org/it/petizioni/rai-non-mandare-in-onda-il-reality-mission-nomission


DISSERVIZIO PUBBLICO 
di Giorgio Fornoni
Prendete tre pseudo-vip del calibro di Albano, Emanuele Filiberto e Michele Cucuzza. Metteteli per dieci giorni fianco a fianco con gli operatori umanitari in un campo profughi del Sud Sudan, del Mali o del Congo. Accendete le telecamere 24 ore su 24 e condite il tutto con le lacrime facili del buonismo televisivo. Ecco la geniale ricetta della RAI, l’ente pubblico televisivo italiano, per risollevare le sorti di un’azienda in evidente crisi di identità.
Il format del reality, con i suoi precedenti illustri de “L’isola dei Famosi” e del “Pechino-Express“, viene applicato alla tragedia di un mondo devastato dalle tre maledizioni bibliche di sempre: la peste, la fame, la guerra. Si chiamerà “Mission”, orecchiando l’avventura dei gesuiti tra gli indios guaranì del Sudamerica raccontata dal film con De Niro. L’ondata pubblica di sdegno che ha raccolto in pochi giorni oltre 40 mila firme sul web, basata proprio sugli esempi ben noti di tv-spettacolo, lascia già immaginare quale sarebbe il risultato finale dell’operazione e a quale livello di tv-spazzatura si sia arrivati. L’Africa è stata sfruttata da tutti, per secoli. Non farebbe eccezione l’idea di trasformare uno dei suoi infiniti drammi dimenticati in un teatrino nazional-popolare.

UNA STRONCATURA SENZA APPELLO
Autorevoli esponenti delle associazioni umanitarie, che da anni lavorano con serietà, impegno e in silenzio sui drammi del mondo, sono insorti accusando i dirigenti RAI di volere qualcosa che somiglia alla “pornografia”. La giustificazione, da parte loro, è che in questo modo si vuole “sensibilizzare” il pubblico sul tema della cooperazione, di fatto sostenendone la causa, anche con concreti ritorni economici. Questo spiegherebbe anche l’appoggio, a sorpresa, dato all’iniziativa, da organizzazioni come Intersos, una delle maggior Ong italiane, e la stessa Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite, l’UNHCR.
Lo sdegno, già ampiamente espresso e manifestato da molti, contro un’operazione che ha tutte le premesse di una volgare spettacolarizzazione del dolore e della sofferenza (centrato tra l’altro sulla mediocrità dei personaggi chiamati in causa come attori principali), parte da motivazioni di tipo etico e morale. Questo è un dato di fatto, il punto di partenza di una stroncatura senza appello. Si dimentica però, a mio avviso, un’altra prospettiva, che inchioda i promotori dell’iniziativa, e in particolare i dirigenti dell’azienda pubblica che hanno avviato il programma, a confrontarsi con la loro buona fede.

RAI: L’INFORMAZIONE NEGATA
Come si può dire, senza essere tacciati di ipocrisia e mala fede, che si vuole “sensibilizzare” il pubblico sui grandi temi delle tragedie dimenticate quando per anni, sistematicamente, è stato negato lo spazio di informazione adeguato e corretto per rappresentarle? Quello dei servizi giornalistici, dei telegiornali, delle interviste, dei reportage dalle tante aree dimenticate del mondo, di un’Africa stessa che figura agli ultimissimi posti in tutte le classifiche della geografia RAI? Perchè non si dovrebbe dimenticare che la maniera più corretta, “normale” direi, di sensibilizzare il pubblico è quella di raccontare la verità e di informarlo sulle dinamiche di una storia che passa davanti ai nostri occhi senza che a volte ce ne rendiamo nemmeno conto. E i professionisti chiamati per loro deontologia professionale e per loro stesso mestiere a farlo sono i giornalisti, gli inviati, e quanti comunque vivono dall’interno, in presa diretta e in prima persona, eventi e drammi in qualsiasi parte del mondo.
Posso testimoniare in prima persona, come giornalista e reporter, la difficoltà enorme di trovare spazi nei palinsesti, per raccontare le tante storie, non necessariamente drammatiche, ma comunque degne di essere prese in considerazione e conosciute, che si possono facilmente raccogliere se si ha il coraggio di viverle sul posto. “Sei stato in Angola? Ma hai chiesto in giro quanti sanno dov’è l’Angola?” Così mi sono sentito chiedere da un direttore televisivo al mio ritorno dall’ennesimo viaggio e da un’intervista esclusiva al capo dell’Unita, Jonas Savimbi, protagonista della lunga guerra civile seguita al ritiro dei portoghesi. Quanti miei colleghi si sono sentiti fare la stessa domanda a proposito della Liberia, dell’Eritrea, dei Saharawi, in esilio da 40 anni nel deserto più inospitale del pianeta, dove un popolo intero vive in campi profughi diventati città, ignorato dal resto del mondo che gli nega il diritto all’autodeterminazione?
E che dire dei traffici di coca, di oppio, di diamanti, di oro, di coltan che alimentano una economia sommersa mondiale e che sono all’origine di tante guerre e di tante migrazioni di profughi? Se c’è una categoria chiamata istituzionalmente a parlare di queste cose, col filtro della propria professionalità, dell’impegno morale e della capacità di andare oltre ciò che si vede, i luoghi comuni e le tante disinformazioni strumentali, per capire le cause prime di sofferenze e lutti, questa è quella dei reporter internazionali. Ne conosco tanti che hanno dato la vita e sono pronti a darla in ogni momento in qualche parte dimenticata del mondo, per strappare la testimonianza di una foto, una ripresa filmata, un’intervista rivelatrice sull’intreccio di interessi che nasconde la verità.

DOVE ERANO I RESPONSABILI DELL’INFORMAZIONE?
Dove erano allora e come si comportano oggi i responsabili dell’informazione pubblica così ansiosi di “sensibilizzare” il loro pubblico? Dove erano quando tornavo con le immagini di una Grozni rasa al suolo dalla real-politik di Putin, con storie angoscianti dai campi profughi dell’Inguscezia e del Dagestan. O dalla valle del Panchisi, in Georgia, dove l’unico giornalista presente, quando c’ero entrato, era stato Antonio Russo, di Radio Radicale, ucciso dai servizi segreti russi? Quante volte mi sono sentito dire da una famiglia di profughi ceceni o da qualche donna congolese o saharawi, “racconta al mondo la nostra storia, perchè nessuno sembra accorgersi di noi”. L’ho fatto, qualche volta anche per “Report”, l’ho sempre fatto e continuerò a farlo, anche se poi ho sempre dovuto constatare di persona quanto è difficile far passare un messaggio del genere sui grandi canali di informazione. Tante altre volte, in passato, potevo raccontare le mie storie soltanto su qualche rivista missionaria o in conferenze pubbliche di paese.
Ci sono tanti colleghi, anche amici, che hanno pagato con la vita il loro impegno. Come Anna Politkovskaya, che avevo incontrato, raccogliendone la frustrazione professionale per la insensibilità internazionale nei confronti della tragedia cecena. Si è dovuto aspettare che venisse freddata da un killer sulla porta di casa per accorgersi di lei e del suo grido.
Ben venga dunque la ritrovata attenzione della RAI di fronte ai tanti drammi del mondo. Ma che questa passi attraverso un cambiamento reale, attraverso una riconsiderazione più seria di tutta l’informazione televisiva, non solo mirata allo spettacolo o al trionfo dell’ovvio e del banale. Ci sono migliaia di reporter, in ogni parte del mondo, che non aspettano altro che qualcuno possa dar loro uno spazio e una voce per raccontare ciò che non è mai stato raccontato prima. Ci sono migliaia di operatori umanitari, missionari, persone direttamente coinvolte nei problemi, le sofferenze e le realtà di quello che una volta si chiamava Terzo mondo, che potrebbero diventare i protagonisti di questa autentica rivoluzione nel modi di fare e raccogliere informazione. Spiegarci per esempio perchè ogni anno decine di migliaia di persone affrontano rischi mortali partendo su barconi malandati dalle coste dell’Africa in fuga dai loro paesi. O perchè tante ragazze sono costrette ad alimentare la tratta degli schiavi che alimenta la prostituzione internazionale.

L’INFORMAZIONE È CULTURA, NON PORNOGRAFIA UMANITARIA
L’informazione è cultura, fare informazione significa dare al pubblico le notizie e gli strumenti per analizzarle e capirle, per formarsi un’opinione, per compiere delle scelte. Non è certo aprendo il sipario dei reality su un bambino che piange o che muore che si fa informazione e che si fa cultura. Questa, ha ragione Guido Barbera, presidente del Cipsi, è soltanto “pornografia umanitaria”. La RAI, anche e soprattutto nella sua qualità di azienda pubblica televisiva, non dovrebbe non solo accettarlo, ma nemmeno osare proporlo.
Si ribatte che anche all’estero ci sono vip dello spettacolo o del cinema che si sono prestati alla causa umanitaria. Da Lady D ad Angelina Jolie, abbiamo visto passare tanti altri nomi noti. Ma non avevamo mai visto prima, gente di spettacolo, fare della sofferenza vera il “proprio” spettacolo. Essere testimonial di una agenzia umanitaria, con la dignità e il rispetto che una operazione del genere richiede, non crea nessun disturbo e nessun problema morale. Altra cosa è mercificare la sofferenza e il dolore, farne spettacolo da voyeur, con l’ipocrisia magari di qualche finta lacrima in primo piano.
Ricordo una notte, nella foresta della Sierra Leone, nel cuore delle miniere dei diamanti insanguinati, quando le bambine-soldato rapite dai guerriglieri bussavano alla mia porta supplicandomi di portare via con me i figli nati dagli abusi e dalle violenze. È possibile trasformare un momento del genere in una sceneggiata televisiva? Ma soprattutto, viene da chiedersi, è lecito farlo?
Quando Laura Boldrini, all’epoca responsabile dell’UNHCR Italia venne contattata dai dirigenti RAI per valutare la proposta di una trasmissione, indicò giustamente un format televisivo australiano già esistente che a suo parere avrebbe potuto effettivamente funzionare. La differenza con l’ipotesi “Mission” e la presenza di un Albano che dice di voler cantare con i profughi “per aiutarli” è però abissale. Gli operatori televisivi australiani hanno infatti seguito per settimane, sul campo e in  presa diretta, chi nei campi vive e lavora, accendendo dunque i riflettori su una esperienza quotidiana che ben merita di essere raccontata e conosciuta.

LE CONTRADDIZIONI DELLA COOPERAZIONE
C’è poi un’altra considerazione fondamentale da fare sul senso di “spettacolarizzare” a tutti i costi il set naturale di un campo-profughi. E questa chiama in causa molte delle stesse organizzazioni umanitarie, la politica internazionale. Ci sono contraddizioni evidenti anche nel mondo della cooperazione. Ci sono interessi strategici e politici che fanno accendere i riflettori su un dramma e uno scenario internazionale piuttosto che un altro. Ci sono giochi di politica e di fondi dedicati che chiamano le ong a operare in un paese piuttosto che in un altro. Ricordo la mia ultima visita in Angola, dove dalla fine della guerra si trascina un drammatico problema di bombe e mine inesplose disseminate ovunque che continuano a mutilare e uccidere. Come in Cambogia, in Kurdistan, in tante altre parti del mondo. Non lontano da Huambo, avevo conosciuto e seguito il lavoro degli sminatori della agenzia Intersos, oggi apertamente schierata accanto alla RAI nel difendere questo osceno reality. Era la fine del 2001 e l’attenzione internazionale venne dirottata di colpo sull’allora semisconosciuto Afghanistan. Nell’arco di un mese, dopo l’intervento militare americano, erano tutti lì, compresi quelli stessi operatori che avevo incontrato in Angola. Da allora, e sono passati 12 anni, dell’Angola e delle sue mine non si ricorda più nessuno. C’è un perverso intreccio tra la politica internazionale e l’attività delle stesse ong che io stesso ho raccontato in un contestato servizio televisivo. Perchè molti corrono soltanto là dove sono i contributi internazionali e dove c’è la maggiore visibilità mediatica. La necessità di raccogliere fondi li espone poi, molto spesso, ad altre contraddizioni e a discutibili compromessi.
Può anche succedere che ci siano verità e crisi dimenticate che “non si vogliono” raccontare. L’ho sperimentato direttamente nel corso della mia inchiesta sul petrolio nel delta del Niger. Il destino di un intero popolo, quello degli Ogoni, è stato scritto dalle multinazionali che hanno invaso il loro territorio per farne campi di estrazione. Hanno avvelenato la loro acqua, sterminato i loro pesci e reso sterili per l’inquinamento i loro terreni. Chi si ribella e compie sabotaggi negli impianti lo chiamano guerrigliero o terrorista, anche nel linguaggio dei grandi networks internazionali. Un gioco facile che si ripete ovunque ci siano grandi interessi in gioco, dall’Afghanistan alla Cecenia, al Messico del Chiapas e di Marcos, o in Amazzonia.
A volte, lo stesso scenario di un campo profughi può nascondere realtà inquietanti. Il girone infernale, realmente dantesco, che ho conosciuto a Goma, al confine tra Rwanda e Congo e che ha devastato l’intera regione dei Grandi Laghi, è stato voluto e tuttora vive per la complicità della grande politica internazionale con le mafie locali e i governi corrotti. Per anni, dalla fine della guerra civile rwandese, il campo profughi è stato il santuario della guerriglia che ha insanguinato e insanguina la regione creando un flusso ininterrotto di profughi.
In Mali, il problema dei rifugiati nasce anche dalla guerra civile tra governo e Tuareg, innescata dalle armi vendute dai ribelli libici aiutati dall’Occidente per detronizzare Gheddafi e mettere le mani sul petrolio. Non si può capire la realtà di un campo profughi (e non saranno certo Albano, Cocuzza o il rampollo dei Savoia a farlo), senza capire le ragioni e le dinamiche vere, che restano spesso taciute.
Come la storia vera del coltan, che ho cercato di raccontare per “Report”: dalle miniere difese dai militari e le mafie locali della guerriglia, ai trasporti in mano ai mercenari russi, per finire al grande mercato internazionale dei telefonini e della tecnologia più avanzata. L’80 per cento del prezioso metallo, indispensabile nel mondo hi-tech, proviene dall’inferno verde e martoriato del Congo. Ma si vuole raccontare davvero? È questo che vuole la RAI? Beh, a mio parere ci sono modi più seri ed efficaci per farlo.

Fonte: Solidarietà Internazionale 

10/11/13

REPORT DI VIAGGIO DALL’INTERNATIONAL WORK CAMP 2013: Palestina, un viaggio nell’apartheid

Le politiche israeliane discriminano e limitano i movimenti dei palestinesi. Difficile l’accesso all’acqua. Le colonie sono off-limits. Giornalisti sotto pressione. Colpiti adulti e bambini

Un popolo straordinario che nonostante la martellante occupazione israeliana riesce a mantenere il suo equilibrio interiore. Questa è la loro più grande vittoria, una grande resistenza pacifica, che trova forza dall’anima e dal cuore grande di una terra bistrattata da decenni. E uno Stato che porta avanti un’occupazione militare che infrange il diritto internazionale, così come il diritto umanitario e persino il diritto militare. Spinta dal desiderio di mettere piede su una terra di cui scrivo da anni, decido di partire per partecipare alla III° edizione del campo di lavoro internazionale organizzato dal comune di Ramallah in collaborazione con Assopace Palestina. E’ il 13 agosto, il mio volo atterrerà a Tel Aviv e da lì mi muoverò per Gerusalemme, poi verso Ramallah. Sono sull’aereo, in direzione di arrivo. L’assistente di volo ricorda: “Le autorità israeliane raccomandano di non fare fotografie”. Guardo dal finestrino, non ci metto molto a capire il perché. Si intravedono molte basi militari, con cacciabombardieri. Una volta atterrata, mi accoglie l’atmosfera surreale dell’aeroporto internazionale Ben-Gurion. Passati i controlli di rito – dovuti ad “inconfutabili ragioni di sicurezza”, per molti una assurda e palese umiliazione – mi avvio finalmente verso l’uscita. C’è una statua di Ben-Gurion, guardandola riaffiorano in me alcune delle sue dichiarazioni risalenti agli anni in cui era primo Ministro in Israele e in riguardo alla pulizia etnica del popolo palestinese: “C’è bisogno di una reazione brutale e forte, dobbiamo essere accurati nei tempi, nei luoghi e su coloro che dobbiamo colpire. Se accusiamo una famiglia, dobbiamo fargli del male senza pietà, donne e bambini inclusi. Altrimenti non è una reazione effettiva. Durante le operazioni non c’è bisogno di distinguere tra innocenti e colpevoli”. Continuo a camminare, non riuscendo a fare a meno di pensare ad alcune delle parole più brutali dichiarate dal politico israeliano: “Dobbiamo usare il terrore – raccomandava Ben-Gurion nei suoi primi anni di militanza -, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle loro terre per ripulire la Galilea dalla popolazione araba”. E per le autorità israeliane quest’uomo è stato talmente da buon esempio da meritarsi onorificenze così manifeste. Spesso osservare anche la punta dell’iceberg, aiuta a capire meglio quello che c’è sotto.

LIBERTA’ CALPESTATE
Israele è uno Stato che ha trainato l’apartheid anche nel ventunesimo secolo. Ha creato una gigantesca macchina discriminatoria dandogli il nome di “sicurezza”. Le politiche israeliane discriminano e limitano i movimenti di tutti i palestinesi, invece di essere dirette esclusivamente verso particolari individui ritenuti pericolosi per la “sicurezza”. Ogni giorno libertà e diritti di un intero popolo vengono calpestati. Lo sanno i palestinesi così come lo sanno molti israeliani, che si riuniscono in gruppi ed associazioni per cercare di contrastare tutto questo. Ci sono centinaia di organizzazioni umanitarie israeliane che collaborano con i Territori occupati per cercare di mitigare gli effetti devastanti di una situazione disumana che va avanti da oltre un secolo. Ci sono israeliani, ad esempio, che se ne stanno quotidianamente ai checkpoint per cercare di aiutare qualche palestinese a passare, a non essere respinto nonostante debba attraversare la barriera per guadagnarsi il pane quotidiano. Per questo è preferibile parlare di Stato di Israele piuttosto che di “israeliani”, perchè a non tutti sta bene ciò che a loro nome generazioni di classi dirigenti stanno portando avanti. Nella Cisgiordania ci sono 125 colonie – senza contare le 15 in Gerusalemme Est -, e 98 avamposti che negli anni si sono trasformati in vere e proprie colonie. Poi dal 2002 un’infinita colata di cemento armato sta tirando su il muro della separazione, al fine di costruire un enorme ghetto. Oltre 700 chilometri in nome dell’apartheid.

IL MURO DI GERUSALEMME
Per la strada verso Gerusalemme il muro e un checkpoint mi danno il benvenuto. Con lo
Sherut, un taxi collettivo, passiamo attraverso un quartiere ortodosso. Scorgo dal finestrino tre bambini che ridono sotto al poster di due persone uccise e sanguinanti. Non riesco a capire cosa c’è scritto sopra quel poster, ma forse è meglio così. Arrivo a Gerusalemme. Una città che nonostante tutto regala un’intima pace interiore. Secondo le leggi israeliane i residenti palestinesi di Gerusalemme Est non sono né cittadini israeliani né abitanti della Cisgiordania. Hanno un permesso di soggiorno che gli permette di vivere nella città. Tale permesso può essere revocato dalle autorità israeliane qualora esse sostengano che “Gerusalemme non è il centro di vita” del titolare del permesso. Inoltre, i palestinesi residenti in Cisgiordania hanno non pochi problemi ad entrare a Gerusalemme. Per loro è obbligatorio il possesso di un permesso speciale e il passaggio ai controlli presso uno dei quattro checkpoint che circondano Gerusalemme. Per i cittadini israeliani e per i coloni non sono previsti permessi speciali. Ben 98 checkpoint fissi ostacolano la libertà di movimento dei palestinesi in Cisgiordania. Passeggiando tra i vicoli che ospita la porta di Damasco, s’incontrano parecchi sciuscià, ragazzini che in cambio di pochi spiccioli svolgono commissioni per adulti. Se si torna indietro giusto di qualche pagina della storia italiana, non mi sembra tanto distante dal nostro Paese la vita di questa terra. Mi metto in viaggio per Ramallah. Percorrendo la strada ci fermiamo perché incontriamo un posto di blocco. Un soldato israeliano sale sull’autobus per controllare i “permessi” ed eventualmente portare con sé “intrusi palestinesi” senza lasciapassare. A noi europei non guarda neanche. Ma d’altronde noi abbiamo un passaporto. Abbiamo un pezzo di carta che ci riserva dall’essere uccisi in strada, arrestati, umiliati senza motivo. Secondo un recente rapporto di Human Rights Watch “le politiche discriminatorie israeliane controllano molti aspetti della vita quotidiana dei palestinesi che vivono in aree sotto l’esclusivo controllo israeliano e tali politiche non hanno alcuna concepibile ragione di sicurezza”. Arrivata a Ramallah, scopro una città meravigliosa. Caotica di sicuro, ma con le sue straordinarie peculiarità. A Ramallah, per qualche istante, quasi ci si dimentica dell’occupazione. Quasi ci si dimentica che a nove chilometri da lì ci sono 3 colonie che contano migliaia di abitanti e sei avamposti. A molti villaggi palestinesi nei pressi di Ramallah sono state chiuse le strade per raggiungere la città. Oltre ad aver confiscato migliaia di ettari di terre palestinesi per costruire gli insediamenti, le autorità israeliane hanno anche reso quasi impossibile l’accesso dei palestinesi alle terre agricole, in particolare a quelle vicine alle colonie. L’accoglienza al campo internazionale è calorosa, la municipalità di Ramallah, nelle persone di Asad Hussary e Sana Barakeh, accoglie internazionali e palestinesi giunti nel campo di lavoro. Molti palestinesi che avrebbero dovuto partecipare al campo, non sono riusciti a raggiungere Ramallah poiché sono stati respinti da vari checkpoint. Asad e Sana sono stati giorno e notte con il gruppo di volontari, coordinando le attività e i lavori, offrendo quel mix così raro di professionalità e umanità insieme.

L’ACCESSO ALL’ACQUA E’ LIMITATO
Le giornate passano tra lavori manuali di decoro urbano, supporto a lavoratori edili, visite in altre località, ma anche preziosi incontri con operatori, politici ed attivisti. Nella Valle del Giordano, la situazione ci viene spiegata da un operatore della Maan Foundation. “Ci sono moltissime colonie israeliane nella Valle. Un tempo molte comunità palestinesi del posto possedevano coltivazioni di banane, ma la costruzione delle colonie ha distrutto tutto. Ha soprattutto limitato l’accesso all’acqua e molti palestinesi si sono visti costretti ad andare a lavorare nelle colonie. Ci sono molti terreni che Israele ha riservato per allevare i suoi animali, in cui i palestinesi non hanno assolutamente accesso. Altri campi sono stati definiti “riserva naturale”. La Valle del Giordano comprende quasi la metà dell’Area C. I confini municipali di ogni colonia, come nel resto della Cisgiordania, sono controllati dall’esercito. E guai ad avvicinarsi. Poi se sanno che sei un giornalista, non importa di quale nazionalità tu sia, aprono il fuoco. E’ successo a due reporter su commissione dell’UE. Dalla vedetta hanno intravisto una telecamera e hanno aperto il fuoco. Le colonie sono off-limits. Residence esclusivi per coloni. E solo per esserci avvicinati al muro che costeggiava una colonia esclusivamente per fotografare alcuni graffiti, sei soldati si sono affacciati urlandoci di allontanarci con mitra e telecamera alla mano. E’ stato stimato che poco meno di 10 mila coloni detengono il controllo del 50% dell’intera valle, mentre oltre 60 mila palestinesi hanno possibilità di accesso su meno del 10% del territorio nonostante Israele non goda di alcun diritto di proprietà sulle terre della zona. La Valle è stata da sempre un obiettivo strategico per Israele, che negli anni ha occupato l’area per accaparrarsi il controllo dell’intera rete idrica, proibendo ai palestinesi anche di costruire pozzi. A causa della mancanza di acqua le comunità di palestinesi locali stanno cercando un modo per riciclarla. Un operatore di un progetto di sviluppo idrico è stato arrestato per 8 mesi e 4 giorni; senza neanche sapere nulla in merito all’arresto. Gli hanno chiesto solo il nome. Quando fu rilasciato gli dissero che era stato arrestato per errore, a causa di un’omonimia.

I PRIGIONIERI PALESTINESI NELLE CARCERI ISRAELIANE
Il giorno seguente partecipiamo ad un’assemblea circa la situazione dei prigionieri
palestinesi nelle carceri israeliane. Tutte persone arrestate, che non sanno quando usciranno dal carcere. Molti prendono parola, quasi tutti parenti di persone che sono in carcere per i motivi più assurdi. Tra gli oratori, una bambina che piangendo esterna tutta la sua rabbia per l’arresto del giovane padre. “L’ultima volta che ho visto mio padre avevo due anni. E quando lo hanno arrestato non c’è stato concesso neanche di salutarci. Non posso godere dell’affetto di un padre. Vorrei solo un suo abbraccio”. Una anziana signora interviene poco dopo. Ha in mano la fotografia del figlio su una sedia a rotelle: “Mio figlio è stato arrestato mentre dimostrava contro le discriminazioni israeliane a Qalqelya. Mentre era in carcere è scoppiato un ordigno che gli ha fatto perdere le gambe. “Mio figlio ha bisogno di aiuto e di cure che in carcere non gli stanno assicurando” urla con dolore la donna. I coloni che vivono in Cisgiordania, nonostante gli insediamenti non siano stati formalmente annessi ad Israele, si avvalgono del sistema giuridico israeliano. Di conseguenza non sono soggetti alla legislazione militare, come invece lo sono i palestinesi. Con il regolamento 5757, “Regolamento di emergenza su reati nei Territori occupati e competenza ed assistenza legale” emanato dal Ministero della Difesa israeliano nel 1967, è stata ufficializzata una disparità di trattamento penale e legale degli imputati che garantisce ai coloni israeliani maggiori libertà e garanzie giuridiche, invece negate ai palestinesi. A due popolazioni sulla stessa area sono applicati due sistemi giuridici diversi. In particolare per quanto riguarda la modalità di arresto, il periodo massimo di detenzione prima del processo, il diritto ad avere un avvocato difensore, la pena massima consentita per legge, il rilascio di prigionieri, il trattamento degli stessi durante il periodo di prigionia. Oltre a violare il principio di ugualianza di fronte alla legge, la presenza di due sistemi di leggi evidentemente diseguali infrange anche il principio giuridico della territorialità, per cui “un unico sistema di leggi deve applicarsi a tutte le persone che vivono nello stesso territorio”. E’ la volta di Hebron, città in cui la vita dei palestinesi è stata resa ancora più difficile dall’intensificarsi dell’occupazione, quindi dalla creazione di 7 colonie nell’area urbana e dalla presenza di 17 checkpoint. Un protocollo firmato da Israele e OLP nel 1997 prevede la divisione amministrativa della città in due aree: H1 amministrata da una giunta palestinese e H2 sotto il controllo dell’esercito israeliano. Ai cittadini palestinesi è ancora vietato di passare per Shuhada Street, via nevralgica della città, nonostante il protocollo preveda la riapertura.

LA VIOLENZA MILITARE ISRAELIANA
Per chi vive in H2 anche andare a comprare il cibo diventa una difficle impresa, qualche volta mortale. Nelle ore del coprifuoco durante la seconda Intifada, nel 2002, Imnran Abu Hamdiyya, 17enne palestinese, fu arrestato dai soldati. In quel periodo l’esercito israeliano ad Hebron era solito usare pratiche molto inusuali di tortura ed uccisione dei palestinesi. Il ragazzino fu preso e messo di forza in una jeep. “Come vuoi morire?” gli dissero porgendogli tre fogli con scritto “ti spacchiamo la testa”, “ti gettiamo dalla jeep”, “ti spariamo”. Imnran scelse di essere gettato dalla jeep in corsa, così fu fatto. Ad oggi, la violenza militare israeliana non si è attenuata di certo. Mohammad Al-Salaymeh è stato ucciso lo scorso dicembre nel giorno del suo diciassettesimo compleanno. Era a casa con la famiglia, la mamma gli chiese di andare a comprare una bella torta per festeggiare. Il ragazzino si avviò verso un piccolo negozio vicino casa sua, nei pressi di un checkpoint. Un soldato israeliano gli sparò. Il 12 dicembre è il giorno in cui era nato, ma anche il giorno in cui fu ucciso. Mohammad era un ottimo ginnasta e, nonostante la giovane età, era riuscito a vincere numerosi campionati importanti, rappresentando la sua Palestina. Secondo dati Unicef, negli ultimi dieci anni circa settemila bambini sono stati arrestati, interrogati, perseguiti e/o imprigionati secondo il sistema giuridico israeliano. “Molti bambini sono arrestati nel cuore della notte nelle loro case – si legge nel rapporto “Children in Israeli military detention”(2013)-, da soldati armati fino ai denti. Si svegliano dalle urla dei soldati, che ordinano al resto della famiglia di lasciare la casa. Per molti bambini già solo il momento dell’arresto provoca un trauma psicologico. Spesso i soldati rompono i vetri alle finestre e insultano la famiglia del minore, prelevato da casa con la forza e senza un motivo specifico. Quello che i soldati comunicano ai famigliari è “Viene con noi, poi lo riporteremo”. Il rapporto è stato elaborato grazie alla collaborazione di un equipe di legali israeliani e palestinesi ed evidenzia “gravi violazioni dei diritti dei bambini”.

Sono all’aeroporto di Tel Aviv per il ritorno, scelgo di non dichiarare di essere stata in Palestina, poiché spero di evitare ore di folle interrogatorio, di perdere l’aereo, di subire perquisizioni, varie ed eventuali. In quell’aeroporto chi entra in Palestina è un potenziale terrorista, ovviamente. Mi mandano comunque in fila per le perquisizioni di routine. Davanti a me c’è una donna italiana con un bambino in braccio. Mentre siamo in attesa mi dice: “Fanno bene a controllare così approfonditamente, Israele deve difendersi dai terroristi palestinesi. Qui vivono nell’angoscia, poverini”. E forse è proprio questo il momento più agghiacciante di tutto questo intenso viaggio. “Lei cosa intende per ‘terrorista’?” le chiedo. Nel frattempo mi chiamano per la perquisizione. Ma so che è stato molto meglio così.

Eleonora Pochi

08/10/13

Street art in Palestina: la lotta di chi impugna uno spray

Hamza Abu Ayyash, classe ’81, è uno street artist che vive a Ramallah, in Cisgiordania. “Ho cominciato verso i 12 anni. Inizialmente mi limitavo ad imprimere la mia tag su un muro, con il passare degli anni ho deciso di prestare più attenzione ai graffiti, migliorandomi quotidianamente. E’ per questo che ho studiato belle arti all’An-Najah National University, nella città di Nablus”.

Hamza ha le idee molto chiare. Supporta con la sua professionalità la causa palestinese, in particolare denunciando la questione dei prigionieri civili nelle carceri israeliane. Gli chiedo se hai mai dipinto sul muro di separazione e mi colpisce la sua profonda osservazione: “Non credo che sia positivo fare graffiti sul muro di separazione. Sono contro qualsiasi iniziativa artistica sul muro perché dovrebbe rimanere così com’è, brutto. Quando si fanno degli artwork sul muro in un certo senso è come se si accettasse la sua esistenza. Non ho niente a che fare con me quel muro, è stato costruito contro la nostra volontà. E’ una gabbia che ci tiene intrappolati. E non si può neanche paragonare al muro di Berlino, perché questo è il muro dell’apartheid, non un muro costruito tra due parti della stessa nazionalità”. Hamza spiega che in Palestina l’uso di vernice e spray sul muro proviene da lontano: “I primi graffiti palestinesi sono apparsi nel 1950 in Libano, nel campo profughi Ain El Helwe per mano di un giovane ragazzo che è diventato il più famoso vignettista palestinese, Naji Al Ali. Cominciò a rappresentare sulle pareti del campo la sua speranza di ritornare in Palestina, di liberare il suo Paese dall’oppressione. Tornò a disegnare nel 1987, durante la prima Intifada, per diffondere quelle notizie che non arrivavano al popolo palestinese, poiché preventivamente censurate da Israele. Tutt’oggi i graffiti in Palestina hanno un carattere più politico che artistico”. Naji Al Ali è, tra le altre cose, l’inventore dell’ Handala, divenuta simbolo della lotta non-violenta portata avanti dal popolo palestinese. “L’Handala è “nata” nel 1969 in Kwait” ricorda Hamza. Quel piccolo con le spalle al pubblico, poichè lo sguardo è sempre rivolto alla Palestina.

Per quanto riguarda l’hip hop, l’artista racconta di avere molti amici MC e di aver collaborato e collaborare 
ad oggi con molti di loro. “I Graffiti intesi come ‘hip hop’ sono nati da qualche anno. Sai che l’hip hop in Palestina è giovane, si sta diffondendo a macchia d’olio, ma si è radicato da qualche anno”. Nei mesi scorsi Hamza è stato molto attivo, dipingendo numerose mura in merito ai prigionieri palestinesi. Li raffigura quasi sempre forti e senza volto. La sua tag è “7mz” e qualche volta “Crazy Horse”. Hamza ha cominciato a fare tatuaggi dallo scorso febbraio. Ci tengo a mostrargli il murales “Free Palestinese” – scritto in arabo – realizzato lo scorso anno a Roma da writers italiani e gazawi , in occasione dell’incontro con il convoglio “Vik to Gaza”. Mi chiede: “Ricordi la t-shirt che Vittorio usava indossare, che raffigurava una corona di spine? Quel disegno lo ho realizzato io”. Mi rendo conto che il mondo è grande, ma l’umanità riesce sempre a trovare un modo per incontrarsi. Come se certe persone fossero tasselli di un puzzle incantevole ma dannatamente raro, che se capti la giusta frequenza hai la fortuna di trovarle. E parlandoci scopri che sei stata attratta dalla loro energia poiché fanno parte della cricca che tenta di “restare umani” costi quel che costi. Chiedo ad Hamza cosa rappresenta quel disegno: “Sta a significare‘Gaza sempre nella mia mente’. Ho ancora qualche maglia. Te ne conservo una per quando tornerai in Palestina”.



Eleonora Pochi
Fonte: Moodmagazine

02/10/13

Hebron, il lato oscuro degli Accordi di Oslo

Shuhada Street, dal 2000 strada proibita ai palestinesi della città, nei racconti e le testimonianze dei residenti.


La strage della moschea di Hebron è una ferita ancora aperta nei cuori dei palestinesi della città. Poiché oltre al danno, hanno dovuto subire anche la beffa di vedersi ancor più discriminati per "ragioni di sicurezza" da parte dell'esercito israeliano. E poi in seguito al Protocollo di Hebron, siglato nel 1997 da Israele e OLP, in conformità con gli Accordi di Oslo del '95, la città è diventata una città fantasma, divisa in due settori: H1, governato dalle autorità palestinesi, ed H2, sotto il controllo dell'esercito israeliano.

Il protocollo prevede la riapertura di una delle vie strategiche della città, Shuhada Street, ma le autorità israeliane non stanno tuttora rispettando quanto stabilito dall'accordo. "Nonostante sia un negoziato ingiusto, noi abbiamo rispettato i patti. Israele assolutamente no", sottolinea un abitante della zona H2. I palestinesi che vivono in H2 hanno un codice identificativo e molti di loro sono stati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni a causa dei ripetuti attacchi da parte dei coloni e dell'esercito. Le autorità israeliane hanno ordinato la chiusura di alcuni negozi gestiti da palestinesi solo perché erano vicino alle colonie.

Bilal Anwar, funzionario del Comune di Hebron, spiega: "Da quando nel 1994 Baruch Goldstein, un estremista israeliano, uccise ventinove palestinesi mentre stavano pregando nella moschea di Abramo, l'esercito israeliano temette rappresaglie contro i coloni residenti ad Hebron e dintorni. Fu così che le strade vennero chiuse ai veicoli palestinesi e poco più tardi Shuhada Street, principale via del commercio urbano, fu proibita ai palestinesi, che tuttora non possono neanche attraversarla a piedi".

"I palestinesi che vivono nella zona - sottolinea Bilal - sono costretti a passare sui tetti per raggiungere i loro vicini. Inoltre, subiscono violenze e molestie da parte dei coloni e dei soldati. E' la società civile a muoversi attivamente e pacificamente contro tutto questo, attraverso associazioni e comitati. Alcuni gruppi provenienti dalla Palestina e da Israele hanno lanciato una campagna sul web, coinvolgendo molti paesi nel mondo, per chiedere la riapertura di Shuhada Street, la tutela dei diritti civili e la fine dell'occupazione".

La scorsa settimana ha suscitato sdegno il video pubblicato su Youtube nel quale alcuni soldati israeliani, armati e in uniforme, ballavano a un matrimonio palestinese in città. Ma non va sempre così "bene" a Hebron. Ahmad Alrajabi, un ragazzo palestinese che vive nella zona H2, racconta: "Ero con la mia famiglia a casa di mio padre. Stavamo celebrando il matrimonio di mio fratello quando arrivarono un gruppo di coloni, irruppero in casa, sfondarono tutto e naturalmente fecero saltare il matrimonio. Per mio fratello quello doveva essere il giorno più bello della sua vita, ma è stato uno dei più brutti in assoluto".

Ahmad studia Comunicazione multimediale all'Università, ma per raggiungere la sua facoltà deve attraversare ogni giorno due checkpoint: "Vivo nella zona H2, l'Università dista al massimo cinque minuti a piedi da casa mia, ma Israele non permette ai palestinesi di passare per Shuhada Street. Siamo costretti a prendere il taxi, che vuol dire quasi mezzora di tragitto e due dollari per corsa, un importo molto alto per noi palestinesi che abbiamo redditi decisamente bassi".

Un altro ragazzo palestinese residente nella zona H2 - anche lui come Ahmad studente di Comunicazione e Media all'Università - fa il volontario in una radio locale, si occupa di una trasmissione per i giovani. Anche lui per andare all'Università è costretto a prendere un taxi perché gli è impedito di passare per Shuhada street. Vuole fare il giornalista e non sembra intimorito dal fatto che siano stati uccisi molti giovani cronisti in Palestina. Gli piace anche cantare, ha scritto e registrato alcune canzoni dedicate alla Palestina e alla sua città. E a Hebron questi ragazzi crescono faccia a faccia con la violenza disumana dell'esercito israeliano. 

Eleonora Pochi
Fonte: Nena News

08/08/13

Sudan e Sud Sudan: le conseguenze del colonialismo selvaggio, tra guerra e corruzione

L'arruolamento massiccio di bambini, le paci dimenticate, la corruzione in una teraa condannata alla miseria dalla sua stessa ricchezza, dilaniata dalla guerra civile. Un incontro di Libera rilancia l'attenzione su un paese martoriato

“Una terra che è condannata alla miseria dalla sua stessa ricchezza” ha detto Tonio dell'Olio, facendo riferimento alla seconda guerra civile in Sud Sudan nell’ambito dell’incontro organizzato da Libera  per riflettere sull'attuale situazione sudanese, e con la testimonianza diretta di Daniele Moschetti, Padre Comboniano. Già dal 1995, la campagna italiana per il Sudan ha svolto una costante azione di advocacy verso le istituzioni e un'opera di sensibilizzazione dell'opinione pubblica con l'obiettivo di incoraggiare il processo di pace e tutelare i diritti umani. Un conflitto scoppiato nel 1983 perché “qualcuno aveva cominciato a progettare di costruire una diga”. E se si pensa all'attività d'estrazione mineraria della Golden Sudan Chinese Joint Venture, all'impegno cinese di fornire armi nell'ambito della guerra citata e alle miniere di petrolio di proprietà del tutto cinese, si percepisce che il problema del Sudan in realtà è nel sottosuolo: è troppo ricco. Il conflitto in Sudan, in realtà, non è mai effettivamente terminato. “Oltre le guerre dimenticate, ci sono le paci dimenticate e quella del Sudan sta rischiando di essere una pace dimenticata - osserva dell'Olio -. Libera è particolarmente attenta al rispetto della legge internazionale e si batte contro la corruzione che sta accompagnando il nuovo Sud Sudan”. E la questione è riconducibile anche ad azioni intraprese dalla nostra classe dirigente: “Il primo governo Berlusconi ha appoggiato il presidente sudanese Omar al-Bashir, che cercava di sottrarsi alla condanna del tribunale internazionale, in cambio della cessione di favori”. Al-Bashir sostiene tutt'oggi il Lord Resistance Army(LRA), attualmente in Darfur, tristemente noto per l'arruolamento massiccio di bambini. 

IL COLONIALISMO MODERNO

Daniele Moschetti, impegnato da decenni nella questione sudanese, ha fatto notare che è nelle radici storiche
che risiedono i motivi alla base di molti conflitti attuali, che alimentano il colonialismo moderno. “Nel lontano 1821, con la tratta degli schiavi, i popoli africani furono spartiti tra America, Europa e Oriente. E' solo nel 1955 che il Sudan dichiarò la sua Indipendenza e da qui gli inglesi decisero di lasciare tutto il paese nelle mani del Nord, nonostante ci fosse una classe dirigente pronta ad occuparsi del Sud che, benchè animista e cristiano, fu assoggettato alla cultura dell'Islam, da quel momento dichiarata cultura nazionale”. E' da qui che cominciò un conflitto dilaniato fino ad oggi. Ma dopo la scoperta di numerosissimi giacimenti di petrolio, la guerra sudanese ha cominciato a prendere le sembianze di una guerra per il controllo di risorse. Nel 2005, l'accordo di pace di Naivasha ha previsto la scissione del Sud. L'autonomia del Sud sarà ufficializzata con il referendum del 2011. Per spiegare la situazione che fu scaturita dall'accordo del 2005, Daniele Moschetti ha ricordato la figura emblematica di John Garang: “Era leader dell'Esercito di liberazione sudanese(SPLA) e dopo l'accordo di pace arrivo ad essere vicepredidente del Sudan. Egli aveva una visione ampia del Paese, voleva l'unità nazionale, non una semplice divisione nord/sud. Garang ha perso la vita nel luglio del 2005 a causa di un incidente aereo”. In merito al novello Sud, pare che la corruzione sia il nemico numero uno dello sviluppo del paese: “Al governo di transizione(2006-2011) la comunità internazionale aveva dato undici miliardi di dollari. Di questi, quattro miliardi sono finiti nelle tasche di settantacinque persone della élite che governava in quegli anni. E' stato possibile venirne a conoscenza solo grazie ad una lettera inviata dal nuovo presidente, che li invitava a restituire i soldi sottratti”. Secondo dati del 2010, il Sud Sudan ha perso già il 9% della terra, espropriata da multinazionali. Ad oggi, si parla di almeno un 20%. Per la produzione di biocarburanti le famiglie vengono espropriate dalle loro terre, costrette ad alimentare il raggio delle baraccopoli intorno alla capitale, Juba. 

Eleonora Pochi

19/06/13

Gaza: la cultura come resistenza

E' grazie all'impegno del centro italiano di scambio culturale “Vik to Gaza” che è stato possibile conoscere le storie di alcuni dei rappresentanti delle associazioni culturali della Striscia, attive nei campi delle arti figurative, della musica, della danza e dello sport, della comunicazione, del cinema e della ricerca filosofica. A due anni dalla morte di Vittorio Arrigoni, un convoglio che porta il suo nome è giunto in Italia per testimoniare che nonostante l'assedio e i continui soprusi, Gaza, come tutta la Palestina, riesce a tenere ben alta la bandiera della cultura, tenendo sempre vivo un sapere che permette di guardare oltre, linfa vitale della cultura di un popolo che anche tra i carri armati sa mantenere la delicatezza e la bellezza d'un fiore. Convinti che la cultura e l'arte potranno risvegliare l'umanità anche nei molti che l'hanno perduta a causa del gelo portato da decenni d'assedio. “Il pensiero fisso della contrapposizione del conflitto – racconta Sara, educatrice e attrice teatrale a Gaza – fa regredire le persone. Dobbiamo andare avanti. Stiamo cercando la libertà, per cui dobbiamo essere capaci di vedere oltre, di affrontare il futuro con un'ottica il più possibile positiva”. “Per gli abitanti della Striscia è molto difficile uscire – racconta un ragazzo gazawi emigrato in Italia parecchi anni fa – non solo per Israele. Anche Hamas sa bene che scoprendo posti nuovi e confrontandosi con altre persone, ci si rende maggiormente conto dei propri diritti. Uscire dalla Striscia aiuta ad aprire gli occhi su molte cose”.  


LA STORIA DI MOHAMMED
Mohammad è un ragazzo di 23 anni. Anche per lui, come per Sara e quasi tutti i ragazzi del
convoglio, è la prima volta in Italia, anzi è la prima volta che escono oltreconfine. Tra i suoi primi interventi di Mohammad in Italia, c'è quello da relatore all'incontro promosso da AssopacePalestina, Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese e Rete romana di solidarietà con la Palestina, organizzato in occasione della giornata internazionale di solidarietà con i detenuti palestinesi che si tiene ogni 17 aprile per ricordare tutti i detenuti che a dispetto delle convenzioni internazionali, scontano in carcere una pena inesistente. Dal 2000 ad oggi, sono stati arrestati, tra gli altri, oltre 8000 bambini. Nelle tre giornate si è lanciato un appello per la liberazione di Marwan Barghouti , parlamentare e leader di Al Fatah, condannato a cinque ergastoli nel 2004. A migliaia di prigionieri non è permesso neanche di vedere i propri familiari e questa è solo una delle tante misure previste dalla legge Shalit, pacchetto di provvedimenti deciso da Israele che viola i diritti umani.
Mohammad sa bene cosa vuol dire essere arrestati e rinchiusi in carcere, senza aver commesso nessun reato, perché le autorità israeliane un bel giorno hanno deciso di arrestarlo, visto che l'attività giornalistica svolta dal ragazzo era scomoda agli occupanti. 

Mohammad racconta di sé e della sua professione, che svolge con determinazione e professionalità per la Tamini Press, rete di network creata da lui con un gruppo di ragazzi del piccolo villaggio di Nabi Saleh, territorio interamente circondato dall'occupazione israeliana, non molto lontano da Ramallah.

“Abbiamo tirato su questo progetto editoriale circa quattro anni fa, quando l'esercito israeliano divise il nostro villaggio in quattro cantoni. Per noi era davvero inaccettabile vivere in dei recinti controllati dall'esercito. Da lì cominciammo a scrivere e attraverso il giornalismo, iniziammo una nuova forma di resistenza pacifica. I media non si occupavano della nostra situazione, così cominciammo a creare i nostri canali di comunicazione. Con il passare del tempo, le grandi emittenti iniziarono a consultare i nostri network (sito, radio, social media) per reperire notizie e informazioni. Siamo redattori, cronisti e video reporter e ci occupiamo di documentare soprusi perpetuati quotidianamente. Le forze israeliane hanno tentato più volte di arrestarci. Io sono stato arrestato e trattenuto in carcere per circa tre mesi, nonostante il mio arresto fosse palesemente illegale. Durante la detenzione ho letto molto, ho parlato con gli altri detenuti che erano stati incarcerati senza aver commesso nessun reato. Ci sono molti giornalisti e  intellettuali in carcere. Il motivo del loro, come del mio, arresto è il possesso di file segreti da parte delle autorità israeliane”. 


GLI SCIOPERI DELLA FAME 
Le autorità israeliane possono decidere l'incarcerazione a tempo indeterminato di cittadini palestinesi, senza capi d'accusa reali e senza processo. L'arresto e la detenzione reggono sulla inopinabile motivazione di “possesso di file segreti”, che tra l'altro non vengono resi noti ne al detenuto ne all'avvocato.   “Molti detenuti – continua Mohammad – intraprendono, come unica protesta possibile, lo sciopero della fame”. Gli chiedo se ha timore di tornare in carcere: “Non sono preoccupato di tornare in prigione. Sono un combattente pacifico e lotto per la libertà. I miei fratelli sono stati in prigione e le autorità israeliane hanno ucciso mio cugino. Quando vennero ad arrestarmi, i militari mi bendarono e mi dissero che se volevo vivere dovevo andare in un altro paese. A molte persone hanno demolito le loro case e hanno ucciso mio cugino proprio mentre stavamo lavorando in strada con le telecamere. Un cecchino appostato, gli ha sparato in faccia”.   


I LIMITI ALL'INFORMAZIONE
Tariq, vive nella Striscia ed anche lui è un giornalista: “Non abbiamo la possibilità di lavorare liberamente perché abbiamo evidenti limitazioni. Io, come tutto il team di giornalisti che lavora con me, abbiamo studiato comunicazione all'Università di Gaza. Personalmente mi occupo di documentare ingiustizie sociali perpetuate sia da Israele che da Hamas. Lavoro anche in radio, occupandomi di un programma bisettimanale su questioni sociali. Attualmente sono in Egitto, sto frequentando un corso di specializzazione in giornalismo. Ero a Gaza quando c'è stato l'attacco dello scorso novembre, “Pillar of cloud”, e ho documentato quello che è successo. Hanno bombardato gli edifici dove avevamo una piccola redazione del nostro giornale “Jordan Alhadf” . Due cronisti di un'altra testata sono rimasti gravemente feriti dai bombardamenti e le forze israeliane sapevano perfettamente che in quelle strutture c'erano giornalisti, anche internazionali. Ad ogni modo, tornando al nostro lavoro, stiamo cercando di tradurre il nostro giornale in molte lingue,  per dargli uno slancio e una risonanza internazionale”. 
Majid, un altro membro del convoglio, lavora in un centro che accoglie 700 bambini palestinesi, non molto distante dal confine nord della Striscia. “Intratteniamo i bambini con una scuola di circo e collaboriamo anche con alcuni ospedali, facendo la clown-terapia a bambini che subiscono traumi. Il brutto è che molti problemi di natura psichiatrica non possiamo risolverli...d'altra parte la cosa più bella è che facciamo spuntare il sorriso sulle facce di bambini che avevano perso la forza di ridere. Il lavoro che facciamo è tutto volontario, ma siamo tutti motivati dalla convinzione che dobbiamo recuperare i bambini, perché sono infinitamente preziosi”.

Me ne sto per andare, quando si avvicina timidamente il piccolo Mohammed, di appena 15 anni. “Io suono musica classica. Mio padre era un musicista, suonava musiche popolari e così sono cresciuto con la musica. Credo che la resistenza possa essere dimostrata anche attraverso uno strumento musicale”.   

Eleonora Pochi

20/05/13

"Non per odio ma per amore", Paola Staccioli e Haidi Giuliani raccontano il libro

“Non per odio ma per amore” è un libro travolgente e “passionale”, come lo definisce Silvia Baraldini nella prefazione, una raccolta di fatti storici esposta con uno stile particolarmente attento alle emozioni; oltre duecento pagine intrise di una energia che le sei donne raccontate dalle autrici ancora emanano, benché siano state tutte brutalmente uccise. Colpevoli di perseguire un ideale, un amore internazionalista che nella vita di ognuna di loro ha sbaragliato qualsiasi logica individualista, capitalista, imperialista. Le loro esistenze, benché molto diverse, sono tutte legate dal filo dell’indignazione e dell’azione per la libertà e i diritti dei popoli. Il libro è stato scritto da Paola Staccioli, scrittrice cui “l’impegno politico ha sempre accompagnato la sua vita e non saprebbe immaginarsi senza”. L’altra autrice è Haidi Gaggio Giuliani, madre di Carlo. “Non sono una scrittrice – spiega nel testo -, sono solo la sorella di una libraia che nella forza della scrittura credeva davvero”. Tamara Bunke, Elena Angeloni, Monika Ertl, Barbaa Kistler, Andrea Wolf, Rachel Corrie sono le donne protagoniste dei fatti e dei racconti narrati. Due in particolare, Barbara Kistler e Elena Angeloni, hanno rappresentato per le autrici un catalizzatore emotivo che le ha spinte a scrivere il resto del libro.

Non solo fatti storici, ma anche emozioni. Quanto è importante associare il racconto di emozioni a fatti storici per far rimanere delle storie di vita nel cuore e nella memoria di chi legge?
Paola: Ci sono molti modi per “fare memoria” e tutti ritengo abbiano una loro validità. Il saggio storico come il racconto. Sicuramente la narrativa permette a chi scrive una maggiore libertà. Nella prima parte del libro abbiamo cercato di far emergere, attraverso le emozioni, le passioni e le ragioni che hanno portato le sei donne narrate a lottare, talvolta anche a combattere, per una società più giusta. Lo abbiamo fatto anche per cercare di raggiungere un pubblico di lettori più vasto di quello dei saggi storici, e soprattutto i giovani. E per far amare un po’ queste donne, come è accaduto a noi una volta che abbiamo conosciuto più a fondo le loro storie, le loro vite.

Silvia Baraldini, in occasione della presentazione romana del libro, ha affermato che soprattutto in
questo preciso momento storico, le donne dovrebbero riscoprire il loro ruolo attivo. Che va anche più in là della difesa dei diritti del mondo femminile. Cosa ne pensate?

Paola: Ritengo sia giusto che le donne lottino con forza per la difesa dei propri diritti. Penso anche però che una vera liberazione possa esistere solo in una società in cui siano superate la disuguaglianza, l’oppressione. E quindi che solo in questa lotta più generale, e nel superamento del modo di produzione capitalista, in una società senza classi, le donne potranno essere veramente libere.

 
Haidi, nel libro hai accennato a una questione di grande rilievo, l’interpretazione buonista e quasi “dolciastra” del pacifismo. Scrivere su Rachel ti ha permesso di maturare qualche riflessione particolare in riguardo?
Haidi: L’unico libro pubblicato in Italia che parli di Rachel è il testo di uno spettacolo teatrale che Alan Rickman e Katherine Viner hanno scritto basandosi sulle sue poesie, pagine di diario, lettere inviate ai familiari. Ne esce la figura di una ragazza come tante: seria e divertente nello stesso tempo, ricca di sogni e di umanità . O, per dirla con parole sue, “scombinata e deviante e troppo casinista”. E’ molto interessante leggere la posta che Rachel invia ai familiari ed amici rimasti a casa durante la sua permanenza in Palestina; non solo perché spiega la sua volontà di rimanere a Gaza. Le sue considerazioni sul conflitto diventano ogni giorno più severe; di fronte alle atrocità commesse dai soldati israeliani non riesce a mantenere un atteggiamento di equidistanza. E’ facile essere equidistanti quando si è lontani, nel tempo o nello spazio. Rachel è una “portatrice di pace” che ha scelto da che parte stare e non può sopportare l’idea di fare la spettatrice passiva di un genocidio.

La storia di Monika Ertl, la donna che uccise Quintanilla – console boliviano che ordinò l’esecuzione del Che -, ci insegna che talvolta la rivoluzione comincia proprio dalle mura domestiche. Figlia di un collaboratore di Hitler, Monica forse iniziò a maturare la sua contrapposizione al nazifascismo e all’imperialismo proprio negli anni della convivenza familiare. Cosa pensi di questa storia?
Paola: Sicuramente Monika ha avuto un’infanzia e un’adolescenza fortemente determinate dall’autoritario padre, e la sua ribellione è nata proprio in famiglia, inizialmente con un matrimonio determinato più da un desiderio di fuga che dall’amore. Presto però ha maturato una scelta più cosciente, una scelta politica che l’ha portata a unirsi all’Eln, l’Esercito di Liberazione Nazionale, organizzazione marxista-leninista che operava in Bolivia fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo. Era stata fondata da Ernesto Che Guevara, caduto in una imboscata e ucciso nell’ottobre del 1967 proprio in Bolivia. Molte volte è stato detto che Monika Ertl ha agito “per amore”, per vendicare il suo uomo, Inti Peredo, ucciso nella selva boliviana. Dalle storie di questo libro mi sembra emerga chiaramente che Monika, come le altre donne narrate, ha sicuramente agito “per amore”, ma non solo e non principalmente per amore di un uomo, quanto per amore della giustizia, della libertà dei popoli.

D’altra parte, ci sono casi come quello di Elena Angeloni, in cui pare che la propensione rivoluzionaria riesca a scardinarsi anche da ideologie opposte presenti in famiglia. Credo che Haidi confermi.
Haidi: Elena proviene da una famiglia borghese variamente collocata a destra, socialmente e politicamente. Lei è una ragazza intelligente e quindi si pone delle domande. A Genova, nella cerchia delle sue amicizie, ci sono i De Andrè: anche se il fratello maggiore diventerà famoso più tardi, Elena comincia già a respirare un’aria nuova. Tuttavia è a Milano, dopo la maternità e la successiva separazione dal marito, che matura una coscienza politica e compie delle scelte importanti. In alcuni casi il dna familiare non c’entra per niente; nella formazione di una persona influiscono molti altri elementi: letture, scuola, esperienze di vita, incontri…

Quanto credete nella forza delle parole?
Paola: «Le storie sono asce di guerra da disseppellire». Questa frase, contenuta nel libro dei Wu Ming e Vitaliano Ravagli Asce di guerra, credo dia chiaramente il senso della forza delle parole, dell’importanza del racconto, della narrazione nella conservazione della memoria. E nella memoria, nel ricordo delle lotte, e dei protagonisti delle lotte del passato, sono le radici del nostro presente. In questo libro parliamo di donne, di donne occidentali e quindi in un certo senso “privilegiate”, che hanno deciso di abbandonare la loro vita per andare in un altro paese e dedicarsi interamente al sostegno di una rivoluzione, di una lotta di liberazione. Sono donne molto diverse fra loro, che abbracciano circa 40 anni di storia, tutte accomunate dal fatto che a muoverle non è stato un interesse personale ma una volontà di giustizia. E questo dato mi sembra veramente importante in un mondo intriso di egoismo, individualismo, fondato sulla disuguaglianza sociale. Sottrarre le loro storie all’oblio è quindi importante, per ricordare le loro vicende, sicuramente, ma anche come insegnamento per il presente.

Eleonora Pochi

03/05/13

Alemanno e la sfrenata privatizzazione dei Nidi comunali

Sono otto i nidi comunali inseriti nel recente bando di Roma Capitale finalizzato alla concessione degli asili a privati. Continua quindi il processo di privatizzazione delle strutture di via Flora nel 5° Municipio, largo Rotello nell’8°, via Trafusa, via Vivanti e Largo Camboni nel 12°, via dei Colli Portuensi nel 16°, via di Valcannuta nel 18° e di via Basiliade nel 19°. Coloro che prenderanno in gestione i nidi, nella pratica caveranno profitto dall’aumento previsto dalla legge regionale di riforma dei nidi(12/2011), causa delle “classi pollaio”, del rapporto bambini/educatori. La legge, inoltre, diminuisce il numero dei metri quadri a disposizione dei bambini, che passa da dieci a sei. Anzi, in realtà lo spazio a disposizione dei bimbi sembra essere concretamente ancora meno. “Nel nido di via Valcannuta nel 16° municipio – denuncia l’Unione dei Sindacati di Base – è prevista l’accoglienza di 98 bambini per una superficie netta utile totale di 502 mq (comprensiva di servizi, spazi per il personale, cucina ossia spazi non utilizzati dai bambini) pari a 5,2 mq per ogni bimbo”. La cessione a privati di decine di asili nido della Capitale desta preoccupazione non solo per la qualità dell’attività pedagogica, ma anche per l’occupazione del personale all’attivo nei nidi e soprattutto sul trattamento riservatogli. I timori degli educatori, più che fondati, si aggirano intorno alla consistente diminuzione dei salari, all’aumento delle ore lavorate e, come spiegato, al maggiore numero di bambini che ogni educatrice dovrà seguire. La reazione da parte dei lavoratori e dei genitori è stata forte ed è stata affiancata dall’USB, che ha dichiarato in una nota: “Gli otto nidi devono essere immediatamente aperti con una gestione pubblica e assumendo le educatrici precarie del Comune di Roma. Per scongiurare questo scempio informeremo capillarmente le famiglie ed i cittadini, arriveremo se necessario a denunciare alla magistratura le irregolarità. Intanto dichiariamo lo stato di agitazione di tutto il personale educativo dei nidi, fino al ritiro del bando di privatizzazione”.

Tutto questo, secondo Alemanno e l’assessore alla Scuola De Palo, sarebbe necessario per
“abbattere le liste di attesa”.
Il sindaco ha aggiunto che “gli asili nido comunali costano molto di più di quelli convenzionati”. La realtà sembra essere un’altra. Il nostro paese è in spaventoso ritardo rispetto all’obiettivo stabilito dalla Strategia di Lisbona di 33 posti di nido ogni 100 bambini (33%). Siamo a malapena al 12% e in alcune aree del Sud, si sfiora l’1%. Cifre vergognose, se si pensa al 60% di Danimarca e al 40% dell’Irlanda, per esempio. Il motivo di questo enorme divario è racchiuso nel fatto che l’Italia è l’unico Paese europeo a non avere un capitolo nella Legge di stabilità dedicato ai servizi dell’infanzia. Tra l’altro questa grave mancanza si traduce in una delle cause più gravi delle anomalie presenti nella sfera dell’occupazione femminile made in Italy. Tra l’altro, la messa all’asta di strutture come gli asili nido, sembra ledere principi costituzionali. La libertà di insegnamento, sancita dall’art. 33 e garantita dallo Stato, potrebbe essere compromessa da condizionamenti privati, ossia dall’adozione di metodi e pedagogie particolari legati ad un singolo progetto di Istituto. La scuola statale, che non si fonda su programmi differenziati o su idee particolari, deve continuare ad essere il canale principale al diritto all’istruzione, sancito dall’art. 34 della nostra carta costituzionale: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Nel manifesto del Comitato Nazionale di collegamento per la difesa della scuola pubblica, s’apprende: “ La scuola non è sempre stata pubblica. Essa è nata privata e riservata ai ricchi. E’ diventata pubblica e statale al termine di un lungo cammino di emancipazione da interessi di ogni tipo: la cultura ha dovuto fare molta strada per sottrarsi a questi interessi e assicurarsi condizioni d’esistenza libera, essenziali per il suo sviluppo.” Il processo di privatizzazione della scuola così come si sta evolvendo nel nostro Paese, dai nidi alle Università, sembra rappresentare esclusivamente una sconfitta per la democrazia.

Eleonora Pochi
Fonte: Fuori le Mura

28/02/13

Africa for Norway” una campagna contro gli stereotipi dell’Occidente

“Immagina se ogni persona in Africa vedesse il video “Africa per la Norvegia” e quest’ultimo fosse l’unica informazione mai avuta sul paese nordeuropeo. Che cosa penserebbero della Norvegia? Se diciamo Africa, tu a cosa pensi? ” Questo è il messaggio che lancia la campagna Africa for Norway, che simula efficacemente il retroscena delle azioni di aiuto dell’Occidente verso l’Africa. Capire che Africa non significa solo fame, Aids e povertà è forse la sfida umanitaria più grande per i popoli del “nord del mondo”. Intendo porre l’accento sui popoli, poiché si intende che le classi dirigenti e i grandi capitalisti questo lo sanno, ma operano intenzionalmente affinché un continente intero passi come un pozzo di sciagura eterna. Si dovrebbe scrivere un libro sulle ragioni per cui uomini d’affari e politici lavorano assiduamente per screditare l’Africa, ma ci si può limitare ad accennare sommariamente la paura di perdita di supremazia mondiale economica e politica, perdita di colonie, privazione di materie prime a basso costo.
Se a tutto questo si aggiunge l’immagine che i mass-media definiscono dell’Africa e gli aiuti concessi tanto per essere a posto con la coscienza o con la dichiarazione dei redditi, senza alcun seguito o un obiettivo specifico, allora ci si rende conto che, tutto sommato, l’uomo bianco deve ancora fare i conti con una mentalità razzista e intrinsecamente colonialista. Per combattere questo modo di vedere l’Africa, il progetto chiede agli africani di salvare i norvegesi dal congelamento, donando loro un termosifone. Un ironico attacco contro ogni “pietismo”, in difesa delle potenzialità di sviluppo di un continente che non può vivere solo di “aiuti umanitari”.

Il videoclip  preparato per la campagna, realizzato da studenti norvegesi e professori universitari del Fondo di assistenza internazionale, è una canzone in stile natalizio che lancia, in maniera ironica, un messaggio davvero importante: “La verità è che ci sono molti sviluppi positivi nei paesi africani e vogliamo che questo diventi noto. Abbiamo bisogno di cambiare le spiegazioni semplicistiche dei problemi in Africa. Abbiamo bisogno di educare noi stessi sulle questioni complesse e ottenere maggiore attenzione su come i paesi occidentali hanno un impatto negativo sullo sviluppo dell’Africa. Se vogliamo affrontare i problemi che il mondo si trova ad affrontare abbiamo bisogno di agire basandoci sulla conoscenza ed il rispetto” si legge sul sito del progetto. Ed è proprio attraverso la conoscenza ed il rispetto che i cittadini occidentali devono avvicinarsi all’Africa, scoprendo un continente nuovo e ricco di intelligente umanità, prima che di risorse.




Riferimenti campagna:
Sito: http://www.africafornorway.no/
Facebook: “Africa for Norway”
Twitter: @SAIH #AfricaforNorway

Eleonora Pochi

26/02/13

The Summit, nuove verità sui massacri del G8 di Genova

Una nuova inchiesta, diretta dai giornalisti Franco Fracassi e Massimo Lauria, che riporta l’attenzione sulla “più grande sospensione dei diritti umani dalla seconda guerra mondiale”, durante il G8 di Genova nel 2001″ (Amnesty). The Summit, in concorso al Festival di Berlino, è il frutto di molti anni di lavoro, migliaia di documenti raccolti, centinaia di registrazioni audio e video ed oltre cento testimonianze dirette. Un omaggio alla verità, offerto da un gruppo di giornalisti insinuatosi nei meandri di una questione che ancora oggi è scottante, permettendoci di venire a conoscenza di fondamentali dettagli, finora sconosciuti. Occorre anzitutto definire sommariamente la cornice nel quale l’inchiesta s’è svolta.

Agli albori del nuovo millennio, milioni di persone in diversi paesi del mondo sono scese massicciamente in piazza per opporsi al via libera dei governi ad una globalizzazione che si sarebbe occupata esclusivamente di economia e finanza, attraverso una liberalizzazione schizofrenica dei mercati. Con il “Millennium Round”, il vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio del 1999 a Seattle, si alzava formalmente il sipario sulla più sfrenata fase del capitalismo, proprio quella fase che ora tutto l’Occidente sta pagando a caro prezzo. Quella fase che ha innescato la bomba esplosa dopo meno di un decennio e che ha causato la più profonda delle crisi dell’era contemporanea. La gente reclamava pacificamente la tutela dei diritti umani, dei diritti sociali, maggiore attenzione all’ambiente e tutte quelle questioni che in nome del profitto erano volutamente depennate dalle agende politiche. In special modo tutto ciò che riguardava la tutela del benessere nei paesi in via di sviluppo, visti da USA e UE meri cantieri di manodopera e risorse low cost. La forte contestazione di piazza provocò un esito quasi nullo del vertice di Seattle. Molti manifestanti vennero arrestati ed altrettanti furono manganellati e feriti. Nel 2000, il vertice della Banca Mondiale che si svolse a Praga, fu significativamente contestato, così come si manifestò nelle strade di Napoli nel marzo del 2001, in occasione del Global Forum sull’e-government. I violenti scontri che ci furono tra polizia e manifestanti in quella occasione furono il primo segnale di una insidiosa e pericolosa anomalia nella gestione dell’ordine pubblico. Fu la prima volta che i manifestanti furono caricati dalla polizia in un’area dove non c’erano vie di fuga e di dispersione per il corteo e questo non era affatto previsto dalla procedura ordinaria.

Nel frattempo, a partire dal 2001, si diede il via al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, per costruire un’alternativa comune in contrapposizione al Forum Economico Mondiale. “Un altro mondo è possibile” fu lo slogan con il quale un movimento internazionale di cittadini, volle focalizzare l’attenzione sull’importanza di scelte eque e di rilevanza sociale. Da qui, la contrarietà verso istituzioni come Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, NATO e il vertice G8, quest’ultimo composto dagli Stati protagonisti di questo nuovo ciclo del capitale.
Purtroppo, forum e contro-forum, non sono gli unici appuntamenti nei quali si discute di tematiche che investono la storia di quegli anni. The Summit evidenzia che ci furono una serie di incontri per un coordinamento di intelligence sovranazionale. Figure provenienti dai servizi segreti, dalla polizia e dagli eserciti dei paesi occidentali, si confrontarono per adottare una strategia repressiva e contenere in maniera incisiva, o meglio soffocare, la protesta di milioni di cittadini, assolutamente pacifici. Per il G8 di Genova del 2001, agli agenti fu impartita una disumana preparazione militare. Un addestramento che li portò al massimo dell’esaltazione e della violenza. Furono sguinzagliati come cani feroci. Molti testimoni raccontano della terrificante esaltazione di quei battaglioni. Avanzavano marciando, battendo fortemente i manganelli sugli scudi, e una volta arrivati nella folla, massacravano indistintamente grandi, piccoli, handicappati e anziani. Dai racconti di alcuni testimoni protagonisti nell’inchiesta di Fracassi e Lauria si percepisce molto in merito.

Il documentario rende pure l’idea di quanto pacifico, condiviso e compatto potesse essere il movimento e quindi quanto duramente decisero di reprimerlo vista l’incapacità delle classi politiche di ascoltare le richieste dei cittadini. Forse fu il momento storico in cui i cittadini riuscirono più incisivamente a rigettare il sistema capitalista. Durante i durissimi scontri del 19 luglio nelle vie genovesi, il giornalista Franco Fracassi, nonché regista del documentario, racconta: “Un agente mi disse ‘Vuoi proprio sapere dove saranno gli scontri domani? Fatti trovare all’angolo della banca a piazza Paolo da Novi a mezzogiorno di domani. E vedrai che lì cominciano gli scontri ‘. La mattina dopo arrivo in quell’angolo. In quel momento ci stavano i Cobas, e uno schieramento di polizia, che era proprio in quel punto là. A mezzogiorno, precisi come un orologio, arrivano i black bloc, e incominciano a devastare la banca. La polizia non fa altro che osservarli. Appena finito di devastare la banca scappano via. La polizia carica i manifestanti dei Cobas”.
L’inchiesta, anche grazie al contributo di Sergio Finardi, esperto di tattiche di guerra informali, evidenzia anche quell’alone di mistero che ruota intorno a questi gruppi contraddistinti da abiti neri. Sembrerebbero a tratti estremisti con ragioni di base comuni ai manifestanti pacifici, ma secondo alcune fonti, sarebbero neonazisti, o addirittura membri di forze dell’ordine, camuffati da black bloc. Ma chi sono? Esisteranno davvero questi black bloc?
Ci si sofferma anche sul massacro della scuola Diaz, di recente raccontato altrettanto realisticamente da Daniele Vicari in Diaz- Don’t clean up this blood. L’inchiesta analizza altri aspetti rilevanti: la presenza tra le forze dell’ordine di CCIR (Compagnie di contenimento e intervento risolutivo), normalmente impiegate per interventi in zone di guerra all’estero, l’uso di fumogeni CS4, catalogati come armi di distruzione di massa, e l’uccisione di Carlo Giuliani, ammazzato da un proiettile che nessuno mai ci dirà con assoluta certezza da quale mano sia partito. L’inchiesta mostra alcuni aspetti misteriosi della presunta colpevolezza di Mario Placanica, che sembrerebbe essersi accollato la responsabilità del fatto, che però sembrerebbe andare ben al di là di un colpo partito frettolosamente per “legittima difesa”. Cosa e chi si vuole nascondere? Una cosa è certa. L’intercettazione telefonica tra due agenti che ridendo si dicono “uno a zero per noi”, in riferimento alla morte di Giuliani, lascia col nodo alla gola. E i 97 minuti di filmato, bastano per suscitare un profondo sgomento. Vedere The Summit non è semplicemente consigliato, è assolutamente necessario. Proprio come sono estremamente necessari l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale e i numeri identificativi sui caschi delle forze dell’ordine.

Eleonora Pochi