30/09/10

Il martirio di Gaza - La Freedom Flottilla

Sei navi, 700 persone in viaggio verso Gaza per portare aiuto alla popolazione civile, stretta da un embargo disumano. L’attacco dell’esercito israeliano in acque internazionali. Nove morti (secondo la versione ufficiale). L’Italia vota contro un’inchiesta internazionale voluta dalle Nazioni Unite.


Nel 1947 gli inglesi respingevano la nave “Exodus” carica di 4.500 ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento che cercavano di entrare in Palestina. Sessant’anni dopo vengono a galla i risultati del buon esempio occidentale.
Nella realtà moderna abbiamo lo Stato d’Israele, nato sotto il segno della violenza perpetrata e subita, e poi c’è Hamas che da trent’anni rivendica, con connotazioni religiose, la distruzione di Israele. Tra i due litiganti chi ci rimette è il popolo. In nome di una guerra giusta (considerata tale anche dall’Italia) in risposta ad attacchi terroristici, tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 Israele sferra l’operazione “piombo fuso” su Gaza, provocando 1.400 morti, di cui 900 civili, e più di 9.000 feriti.
Gaza: un territorio sigillato
Oggi la striscia di Gaza è un territorio completamente sigillato, un carcere a cielo aperto. La densità della popolazione è enorme e al momento dell’attacco Gaza era sostanzialmente senza difese. Si possono quindi comprendere le cifre delle vittime innocenti della guerra e le tragedie umane che per anni sono e saranno la conseguenza di questa operazione: una recente indagine internazionale condotta da tre università sembra rivelare l’uso di nuove armi sperimentate a Gaza, che esporrebbero la popolazione al rischio di mutazioni genetiche. Metalli e sostanze cancerogene sono stati individuati nei tessuti di alcune persone ferite durante le operazioni militari israeliane del 2006 e del 2009. Hanno effetti tossici sulle persone e danneggiano il feto o l’embrione nel caso di donne incinte. Inoltre, una delle ricerche condotte rileva la presenza di tossine nei crateri prodotti dai bombardamenti israeliani a Gaza, indicando una contaminazione del suolo che, associata alle precarie condizioni di vita, in particolare nei campi profughi, espone la popolazione al rischio di venire a contatto con sostanze velenose. Ma non finisce qui. È un dato di fatto che la razza umana non conosce limiti.
La nuova strage
Nella notte del 31 maggio 2010 l’esercito israeliano attacca un intero convoglio umanitario di pacifisti, facendone strage. Ong di tutto il mondo, riunite in una coalizione internazionale, hanno organizzato 10mila tonnellate di aiuti umanitari destinati a Gaza, per sopperire all’assurdo embargo imposto da Israele. Un movimento chiamato “Free Gaza”: sei navi, 700 passeggeri, una coalizione internazionale, la “Freedom Flotilla”. Cittadini di diverse nazionalità hanno deciso di agire e imbarcarsi per Gaza per aiutare una popolazione in difficoltà a fronte del fallimento dei governi e degli organismi internazionali. I popoli sono capaci di questo: di pagare con la loro vita per aiutare qualcun altro. La “Mari Marmara”, battente bandiera turca, è stata la nave che ha subìto l’attacco più violento dell’esercito israeliano. Un vero e proprio atto di pirateria, in acque internazionali, che ha provocato nove morti (i testimoni tuttavia dichiarano di aver visto molti corpi gettati in mare, circa una ventina) e numerosi feriti, la maggior parte dei quali di nazionalità turca. La Turchia è rimasta profondamente indignata dall’accaduto. Da parte sua minaccia Israele di riconsiderare i rapporti politici, militari ed economici. Inoltre, giorni fa ha considerato la possibilità di scortare una nuova missione pacifista per Gaza con la flotta turca. Una situazione tesa, anzi tesissima, che evoca l’immagine della Turchia quale scorta di missioni umanitarie, pronta a fare guerra ad Israele. L’odio porta solo odio, nient’altro. Inoltre ha richiamato il proprio ambasciatore in Israele e ha chiesto subito un’urgente riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Paradossale la dichiarazione dell’ambasciatore israeliano negli Usa che ha definito il fatto “pienamente legale, tutt‘altro che disumano e sicuramente responsabile”. In un’intervista rilasciata a Fox News ha aggiunto: “Israele ha agito nel rispetto della legge; ogni Stato ha diritto di difendersi. Per Israele questo diritto è tanto più lecito di fronte alla minaccia terroristica rappresentata da Hamas. Pertanto, sebbene l’atto sia stato condotto in acque internazionali, gode di legittimità”. Oren giustifica con fermezza l’assassinio dei nove operatori umanitari internazionali a bordo della Flottiglia e legittima gli arresti degli attivisti. Si vorrebbe far credere che alle 4.30 del mattino tre corvette, gommoni silenziosi, elicotteri con truppe speciali e uomini rana avvolti in tute nere avessero assaltato la “Mari Marmara” giusto per invitare i passeggeri a non avanzare e si fossero trovati costretti a sparare per legittima difesa. Be’, non crediamoci! L’autopsia sui corpi delle vittime turche rileva una morte per colpo d’arma da fuoco ravvicinato, alla testa. Esecuzione più che legittima difesa, direi.
Il “no” dell’Italia all’inchiesta internazionale
E mentre il premier israeliano Netanyahu afferma: “Sono orgoglioso dei miei soldati”, il presidente palestinese, Abu Mazen, condanna il blitz israeliano come atto esplicito di “terrorismo di Stato”. Pochi giorni fa il Consiglio dei diritti dell’Uomo dell’Onu ha adottato a Ginevra una risoluzione per una “missione d’inchiesta internazionale”, con lo scopo di indagare sulle violazioni di leggi internazionali. La risoluzione però non è stata approvata all’unanimità. Oltre la scontata contrarietà israeliana: “Non abbiamo bisogno di alcun aiuto internazionale”, proclamata dal ministro Daniel Herhkowitz, ce ne sono altre. I tre “No” sono stati pronunciati da Italia, Usa e Olanda. Scandalose le rispettive motivazioni: “Si ritiene Israele uno Stato democratico e perfettamente in grado di condurre un‘inchiesta credibile e indipendente, il che non significa necessariamente internazionale” (Mauro Massari - portavoce Farnesina); “La risoluzione crea una missione internazionale prima di dare la possibilità ad un governo responsabile di indagare esso stesso su questo incidente e, di conseguenza, rischia di politicizzare ancora di più una situazione già fragile”(Eileen Donahoe - ambasciatrice americana). Bisogna ricordare ai paesi contrari che nel caso di un’indagine interna, le uniche fonti disponibili per ricostruire il tragico assalto e indagare sarebbero israeliane. Le stesse fonti che due ore prima dell’attacco hanno messo fuori uso i telefoni cellulari dei pacifisti (circa 700). Da quel momento, sino al rilascio di alcuni pacifisti arrestati, le autorità non hanno fatto trapelare neanche un filo di testimonianza. Anzi, alcuni media e istituzioni israeliane hanno dichiarato, poche ore dopo l’attacco, che i “pacifisti” sarebbero stati armati e avrebbero reagito violentemente all’invito israeliano di non avanzare per Gaza, ma di attraccare al porto di Ashdod. Pochi giorni dopo la strage s’intravede dalla costa palestinese l’ultima nave della flottiglia, partita da Cipro in ritardo, l’olandese “Rachel Corrie” che cerca di forzare il blocco e approdare a Gaza, malgrado le pesanti intimidazioni di istituzioni e forze armate israeliane. Dopo l’oscuramento della radio e del sistema radar di bordo, l’esercito passa di nuovo all’azione forzata, ma stavolta senza spargimenti di sangue. La nave è stata intercettata da navi da guerra e costretta sotto scorta a dirigersi verso il porto di Ashdod. I 19 passeggeri della nave sono stati tutti espulsi.
I racconti dei superstiti
I primi operatori tornati a casa hanno cominciato a raccontare la loro odissea. Alcuni avrebbero affermato di essere stati storditi con i “Teasers”, ossia apparecchi a scossa elettrica usati dalla polizia. Daniele Luppichini, italiano rimpatriato, racconta: “Io non ero presente sulla Mari Marmara, però quello che ho sentito quando siamo stati condotti in carcere è drammatico”. In particolare l’attivista italiano cita la testimonianza di Jerrie Campbell, un’infermiera australiana che si trovava a bordo della nave turca. “Mi ha riferito di aver contato tra i 15 e i 20 cadaveri e di avere anche visto gettare in acqua diversi corpi. E anche gli altri passeggeri della Mari Marmara raccontavano le stesse, identiche cose”. Prosegue: “I militari ci hanno sequestrato tutto quello che sarebbe potuto servire per raccontare quanto accaduto, dalle telecamere ai bloc-notes. È evidente che Israele non vuole far conoscere la verità al mondo – dice –. Perché non ci restituiscono il materiale sequestrato? Perché non sono rese note le liste complete degli attivisti presenti sulle navi attaccate? Se davvero non hanno niente da nascondere, perché lo fanno?”. Siamo davvero preoccupati, quindi, del “No” pronunciato. Auspichiamo che l’Italia riprenda il prima possibile il suo ruolo di paese democratico e portatore di pace e dialogo a livello internazionale. Dopo il “no” per il rapporto Goldstone, il “no” per un’inchiesta internazionale, anche noi diciamo “no”, ma inteso come rifiuto all’atteggiamento assunto dal nostro paese. Ci dissociamo. Tutti dovremmo dissociarci: i governi luccicano d’ipocrisia mentre operatori umanitari si fanno ammazzare per aiutare uomini, donne e bambini oppressi da anni, i quali non arrivano sugli schermi delle nostre case perché è scomodo far sapere al mondo di crimini così ingiusti. Abbiamo avuto l’occasione di vedere filmati dei bombardamenti di“Piombo Fuso” su Gaza, che non sono passati nei telegiornali e di certo non per la crudezza delle immagini... Speravamo che dopo la seconda guerra mondiale, per lo meno gli europei avessero capito che l’odio distrugge e non serve. In quelle immagini traspariva odio puro. Guardando alla situazione attuale, ci si chiede davvero come può nel XXI secolo uno Stato democratico inviare un commando militare per uccidere persone disarmate a bordo di navi civili cariche di aiuti umanitari in acque internazionali? La maggioranza dei beni a bordo di alcune imbarcazioni della flottiglia sono stati messi al bando dallo Stato ebraico e, nonostante l’Onu abbia dichiarato che il blitz sia stato diretta conseguenza del blocco, l’embargo di Gaza continua. Non passano neanche quei materiali da costruzione necessari per rimettere in funzione il sistema idrico, la rete fognaria e la centrale elettrica di Gaza. Neanche chi è malato e bisognoso di cure. In tutto questo, il ministro Ronchi s’affretta a dichiarare: “L‘Italia è con lo Stato ebraico” avvilito, dice, da “manifestazioni d’estrema sinistra di protesta offensiva”. Ancora una volta si strumentalizza l’instrumentalizzabile. Sempre per cercare di dividere, creare discrepanze, indifferenza, paura e ignoranza. Non c’è da dibattere a mio avviso. Sarebbe opportuno un atteggiamento unanime di sdegno della comunità internazionale di fronte a fatti così gravi. Invece pare sia tutto concesso, nonostante la palese trasgressione di tutti i trattati internazionali, contro i diritti umani, contro ogni etica, contro la democrazia e il rispetto umano. Uno degli ultimi attivisti rimpatriati ha detto: “Abbiamo fallito la nostra missione. Ma ora vogliamo che il mondo intero, che tutti i cittadini si alzino e parlino apertamente. Stop all’embargo, stop all’assedio”. I cittadini greci a fronte delle riforme strutturali gridavano “Peoples of Europe rise up”. Riprendendo il loro slogan, credo sia il caso di dire: “Peoples of the world rise up”. Credo sia arrivata l’ora di spegnere i reality show ed aprire gli occhi sul mondo, quello vero.


Fonte: Solidarietà Internazionale - Eleonora P.

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