09/12/10

"Quelli che escono da casa e scendono in piazza per i loro diritti"



Non è questione d’essere di destra o di sinistra, meritevoli o facinorosi, studiosi o fannulloni, ricchi o poveri,  lustrini o centri sociali; il diritto allo studio spetta a tutti.
Detto questo, se si passano poi in rassegna le ultime modifiche apportate al sistema universitario, è inconfutabile il progressivo collasso della qualità dell’istruzione e del significato stesso di “cultura”.
Con la riforma Berlinguer-Zecchino(2001), è stato introdotto il sistema 3+2, vale a dire le lauree triennali, per adeguarci alla maggioranza dei paesi europei e per far fronte alla alta percentuale di fuoricorso e rinunciatari agli studi. Se si considera il risvolto, a distanza di circa dieci anni, possiamo dire che il modello non ha funzionato. Sono stati attivati ben 4664 corsi di studio (mancava solo un corso per dog-sitter) che hanno generato a cascata 19.625 cattedre  ordinarie ed una media di 47,1 studenti per professore.
Tuttavia, ogni anno accademico le aule delle Università sono sempre più piene, dando esplicita dimostrazione che i giovani si danno da fare, ci credono e vogliono costruirsi un futuro cogliendo la sfida d’un piano di studi massacrante, con trentasei esami nel solo triennio e per il quale basta uno starnuto che sei già fuoricorso. Una volta raccolti tutti i punti, come fossimo in un gioco a premi, si vince il diploma di laurea e si va a casa.
Non bisogna addossare tutte le colpe all’introduzione del 3+2, quanto alla speculazione parassitaria tipicamente italiana che ha fatto regredire in primis la qualità dell’istruzione, generando un’offerta lavorativa che non risponde alla domanda reale del mercato del lavoro.
Eppure, la tempesta vera e propria è arrivata con la crisi. Il Ministro Gelmini intavola, seguendo le direttive economiche di Tremonti, una riforma che implica enormi tagli, fatali per l’Università pubblica.

30 Novembre- Studenti di Napoli per M.Monicelli
30 Novembre- Studenti di Napoli per M. Monicelli

“Gli studenti veri sono a casa a studiare, quelli in giro a protestare sono dei centri sociali e fuori corso” ha dichiarato Silvio Berlusconi a fronte della rivolta nazionale studentesca dello scorso 30 novembre. Coloro che sono scesi in piazza sono migliaia di giovani, usciti di casa perché il loro futuro è in discussione. La frase del presidente del consiglio è volta alla strumentalizzazione politica com’è di suo costume, basti rammentare la questione delle toghe rosse.
Non c’è futuro per i giovani e la risposta non è restare passivamente a casa, magari incollati davanti alla dolce televisione dei reality show che fa scendere meglio la pillola amara.
Qual’è l’effetto che si vorrebbe raggiungere in tal modo?
Proverò a spiegarlo evocando un verso di G. Soriano “In nessuna cosa siamo così tolleranti come in ciò verso cui siamo indifferenti”.
La riforma ammazza-cultura prevede, per il solo 2010, una sforbiciata da 1,3miliardi di euro, ridefinisce l’amministrazione degli Atenei e rende i ricercatori eterni precari. In altre parole viene dato più potere al Consiglio d’amministrazione(Cda) rispetto al Senato accademico. Il Cda sarà composto per buona parte da privati esterni al mondo universitario e prenderà decisioni sulla ricerca insieme ai soli professori e non più anche a ricercatori e studenti.
Il posto da ricercatore sarà trasformato in incarico temporaneo di massimo sei anni.
In una lettera indirizzata a Napolitano scritta da alcuni studenti dell’Università di RomaTre viene citata anche la modifica alle assegnazioni delle borse di studio, che limiterebbero i meno abbienti a godere dei loro diritti “Un’università che con il taglio netto alle borse di studio sarà inaccessibile agli studenti aventi famiglie economicamente disagiate poiché i fondi per il merito non verranno più assegnati in base al reddito ma in base ad un test a pagamento a carico degli studenti – continuano evocando la Costituzione – Quella Carta che all’articolo 33 tutela e detta le norme generali sull’istruzione e che al suo quinto comma rende autonome le università e le accademie considerandole “istituti di alta cultura”. Ed è proprio la cultura ciò che ci preme tutelare; il sapere che ci permette di fare delle scelte e che quindi ci rende liberi.”

Migliaia di studenti e ricercatori hanno occupato strade ed autostrade, piazze, tetti, stazioni, scuole, facoltà e monumenti simbolo della cultura, tra cui il Colosseo a Roma, la Mole Antonelliana a Torino, la Torre di Pisa, e Sant’Antonio a Padova fino ad arrivare sull’arco di trionfo a Parigi.
Il testo della riforma approvato alla camera martedì 30 novembre e in attesa della discussione in Senato dopo la fatidica data del 14 dicembre, è la sentenza a morte dell’Università pubblica, che dopo esser stata per anni depauperata da baroni, speculazioni ed interessi personali e politici, si vedrà definitivamente morire a favore dell’Università privata. Queste ultime sembrerebbero inoltre le prime beneficiare dei finanziamenti elargiti dal Governo, che premierebbero solo le Università che presentano un bilancio positivo; mentre chi è indebitato, si lascia a morire nel circolo vizioso dell’indebitamento.
“Troppi sprechi nelle Università pubbliche” ha dichiarato la Gelmini. Benissimo, siamo tutti d’accordo con questo: epurare l’università è imprescindibile, ma evidentemente le priorità della riforma divergono dal cosiddetto
“principio del buon padre di famiglia”.Allo stesso modo, per dare buon esempio al paese, si dovrebbe epurare in primis la classe politica dirigente e, prodigiosamente, tutte le altre sfere pian piano si potrebbero adeguare, compreso il mondo accademico. Attendiamo con ansia, quindi, il 14 dicembre.

Eleonora Pochi

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