10/08/11

Israele: il popolo in piazza contro Netanyahu

Mancate riforme, diseguaglianze economiche sempre più marcate, la linea dura del governo israeliano ed una lussuosa espansione coloniale hanno indotto migliaia di cittadini a protestare nelle strade di Israele

Sembra essere arrivato finalmente il momento in cui il governo Netanyahu debba fare i conti con il suo popolo. Forte di poter fare comodamente tabula rasa in Palestina, grazie al silenzio-assenso di tre quarti di mondo, la classe dirigente israeliana deve ora gestire un crescente malcontento popolare, consolidato ed esploso a causa del crescente divario economico tra classi sociali. La protesta è iniziata a metà luglio, quando centinaia di tende hanno invaso le strade di Tel Aviv ed altre città israeliane: gli indignados si sono accampati in strada per rivendicare giustizia sociale. Un movimento apolitico e trasversale ha trascinato alla piazza 150 mila manifestanti, spinti dal carovita che sempre più pesa sulle spalle delle famiglie e dalla mancanza di riforme. Inoltre, l'appello ad una mobilitazione di massa è stato lanciato in riguardo alla nuova legge sulla casa, che, secondo il comitato di protesta, favorirebbe la costruzione di alloggi di lusso invece di agevolare la creazioni di nuclei abitativi a prezzi popolari.

“Si tratta di un programma approvato due anni fa” ha dichiarato il ministro dell'Interno circa la costruzione di novecento nuovi alloggi nel quartiere di Har Homa di Gerusalemme est, nei territori palestinesi occupati. Un lussuoso progetto d'espansione edilizia nelle colonie israeliane contro la necessità dichiarata dal popolo di case a prezzi accessibili in Israele. Se per l'Anp si tratta di “una nuova provocazione” da parte dell'amministrazione Netanyahu, i rappresentanti degli indignados hanno indetto un'altra giornata di mobilitazione per il 6 agosto quale proseguo della manifestazione di sabato scorso che a visto scendere in piazza oltre 150 mila persone. Mentre continuano la pioggia di missili israeliani sulla Striscia di Gaza e la colonizzazione dell'intera Palestina, ci si chiede se grazie alla mobilitazione del popolo, almeno in casa, finirà la sporca partita giocata del governo Netanyahu.

Eleonora Pochi
Fonte: Parolibero

Siria: cantante sgozzato per canzone contro Assad

“Il vostro silenzio uccide”. Questo è lo slogan rivolto dai militanti siriani per la libertà alla comunità internazionale, un invito ad intervenire per interrompere la feroce repressione di regime

Migliaia di morti, fosse comuni, minori torturati, persecuzioni e violenze fanno parte dell’ordinaria amministrazione Assad. Tra le file delle ultime vittime, abbiamo ritenuto opportuno ricordare Ibrahim Kashoush, giovane musicista ucciso lo scorso cinque luglio dalle forze di sicurezza siriane a causa di una canzone contro il Presidente. La città di Hama, la quarta più grande del Paese, è storicamente simbolo della resistenza al regime. Nel 1982, nella città furono uccise, con agguato voluto dall’expresidente Hafez al-Assad, oltre 20 mila persone. Lo scorso primo luglio, proprio nella piazza principale di Hama, oltre 250 mila persone si sono riversate in strada per rivendicare il loro diritto alla libertà. Ibrahim ha calcato il palco adibito nella piazza, la sua “It’s time to leave, Bashar” è stata intonata dalla folla a gran voce: “Freedom is very near, depart Bashar!” recita la canzone, che critica il recente discorso del Presidente circa l’intenzione di attuare importanti riforme e invita la “cricca di barbari” a lasciare le poltrone. Dal mese di giugno, la canzone è stata presto diffusa in tutto il Paese, divenendo l’inno delle proteste contro il regime e l’uccisione di migliaia di manifestanti.

Il quattro luglio, Hama è stata assaltata dalle forze militari e si pensa che il vero obbiettivo dell’intera operazione fosse scovare Ibrahim. La mattina seguente il corpo di Ibrahim è stato trovato su una sponda del fiume Assi, con un grande squarcio alla gola gli sono state asportate le corde vocali. Un chiaro messaggio per quelli che osano alzare la voce contro il regime. E’ stato filmato il ritrovamento del corpo del giovane, per visualizzarlo, basta cliccare qui .
Il video sottostante è stato girato il primo luglio a Hama, nella giornata della grande manifestazione contro il regime. Auspichiamo che la voce di Ibrahim riecheggi negli animi del popolo siriano, fin quando il sanguinario regime Assad verrà rovesciato.

Eleonora Pochi

01/08/11

Somalia: vertice mondiale Fao a Roma

Le Ong locali e internazionali da mesi hanno lanciato l’allarme, ma come, nel nostro piccolo, successe per Lampedusa qualche tempo fa, finché non si raggiunge palesemente il collasso, anche dilemmi così rilevanti come la catastrofe somala, non riescono a spronare all’azione immediata

In Somalia é in atto la crisi umanitaria più grave dal secondo dopoguerra, con un tasso di malnutrizione di oltre il 50% ed una mortalità infantile visibilmente alle stelle. Ogni giorno muoiono sei bambini sotto i cinque anni, uccisi dalla fame, dai ribelli o persino sbranati dalle iene. L’acuirsi di una crisi annunciata già da mesi dalle organizzazioni umanitarie, è spiegato dalla presenza congiunta di due fenomeni devastanti quali la guerra interna, che arruola centinaia di bambini come soldati, e la piaga della siccità che investe l’intero Corno d’Africa e che sta portando alla fame oltre undici milioni di persone. Più di 750 mila somali hanno cercato rifugio nei paesi vicini e molti stanno ancora tentando di trovare una via di fuga. I campi profughi allestiti oltreconfine dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati, il più grande dei quali nella città keniota di Dabaab, stentano a fronteggiare la tragica situazione. L’agenzia delle Nazioni Unite in questione ha reclamato ai paesi donatori circa 136 milioni di dollari per fornire aiuti al popolo sudanese. La richiesta avanzata ha favorito la calendarizzazione imminente di un vertice straordinario Fao che si svolgerà a Roma, lunedì 25 luglio, e che coinvolgerà i rappresentanti dei 191 paesi membri, le agenzie Onu, le banche dello sviluppo e le organizzazioni non governative, al fine di elaborare un programma straordinario di aiuti per la Somalia.

“Centinaia di persone muoiono ogni giorno – ha dichiarato Jaques Diouf, direttore generale della Fao – e se non agiamo, molti altri perderanno la vita. Oltre all’assistenza alimentare, di cui c’è bisogno adesso, dobbiamo anche aumentare gli investimenti per interventi immediati e di medio termine, per aiutare gli agricoltori e le loro famiglie, a proteggere le loro attività e continuare a produrre cibo”.
D’altra parte i Shabaab, gruppi estremisti che controllano gran parte della Somalia, costituiscono un serio impedimento per l’accesso degli operatori umanitari, rifiutando da anni l’aiuto internazionale. Il portavoce dei Shabaab ha tenuto a precisare: “C’è siccità in Somalia, ma non carestia, quanto viene dichiarato dalle Nazioni Unite è falso al 100%”.  Un paese martoriato da povertà, guerra e siccità si trova in balia dell’egemonia di bande ribelli, che fanno i capricci davanti a milioni di morti per fame. Al contempo, sarebbe opportuno riflettere sulle parole di Anna Ridout, portavoce del gruppo Oxfam di Dabaab: “La comunità internazionale spesso non fa nulla fino all’emergenza – dichiara la cooperante a Metro -. Invece la carestia si dovrebbe prevenire, non combattere. Sarebbe anche più economico”.

Eleonora Pochi

“LasciateCIEntrare” mobilitazione contro il bavaglio stampa sui Cie

Da mesi ai giornalisti è proibito l'accesso nei centri per immigrati. Organizzata lo scorso 25 luglio una manifestazione nazionale per la libertà di informazione e contro le violazioni di diritti

Ci sono luoghi in Italia dove non è concesso vedere per raccontare. E' vietato informare su quanto avviene in quelle strisce di terreno delimitate da filo spinato, posti arcani che prendono il nome di Cie e Cara, centri di detenzione. La circolare interna n° 1350 emanata il 01/04/2011 dal Ministro Maroni, nel pieno delle ondate migratorie provenienti dal Maghreb, ha vietato ai giornalisti di entrare nei siti per i migranti, ossia i Centri di Identificazione e i Centri di Accoglienza per i Richiedenti Asilo. Il provvedimento, oltre che ledere profondamente il diritto di informazione, oscura violazioni di diritti umani e condizioni di vita inaccettabili. L'atto proibitivo ha suscitato la reazione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana e dell'Ordine nazionale dei Giornalisti, che hanno scritto una lettera congiunta al ministro dell'Interno: “La circolare 1350 limita il dovere di informare liberamente i cittadini, in ottemperanza all’articolo 21 della Costituzione - s'apprende dalla nota”. Davanti al silenzio di Maroni rispetto alla reazione del mondo giornalistico, è stata indetta una giornata di mobilitazione lo scorso 25 luglio. “LasciateCIEntrare” è la sigla delle manifestazioni svoltesi davanti a numerosi Cie e Cara italiani, alle quali hanno preso parte giornalisti, associazioni umanitarie, cittadini e rappresentanti istituzionali. S'apprende dall'appello dell'iniziativa: “Questi centri sono da tempo off-limits per l’informazione, cioè luoghi interdetti alla società civile e in cui soltanto alcune organizzazioni umanitarie arbitrariamente scelte riescono ad entrare. Ma la circolare del ministro dell’Interno ha reso ancora più inaccessibili tali siti – continua la nota - . Giornalisti, sindacati, esponenti di associazionismo antirazzista umanitario nazionale e internazionale presenti nel territorio in cui sono ubicati, sono considerati secondo detta circolare ‘un intralcio’ all’operato degli enti gestori e per questo tenuti fuori”.

Dentro quelle mura, la disperazione dei reclusi è tanta. Basti ricordare la protesta dello scorso giugno di decine di immigrati del Cie di Lampedusa, che pur di non rimpatriare ed uscire dal lager, hanno ingerito lamette e pezzi di vetro. Il Comitato promotore della mobilitazione, durante la giornata di lunedì, ha tenuto a precisare: “Il prolungamento votato nei giorni scorsi dal Parlamento, che consente di trattenere le persone non identificate nei Cie fino a diciotto mesi, aumenta il disagio e la sofferenza in cui si ritrovano persone che non hanno commesso alcun reato”.
Tra le altre, ha aderito all'iniziativa la Fondazione Terre des Hommes Italia, che opera a tutela dell'infanzia, con un sit-in davanti al Cie siciliano: “E’ inaccettabile che centinaia di minori siano costretti a rimanere rinchiusi in strutture, di fatto detentive, in totale violazione delle disposizione di legge che ne prevedono l’opportuna tutela - osserva Federica Giannotta, Responsabile Diritti dell’Infanzia della Fondazione -. Questi minori rimangono in uno stato di abbandono umano per settimane, ignari del perché sono detenuti e di cosa li attende. Durante la loro permanenza sull’isola non sono segnalati alle autorità competenti e, quindi, non sono presi in carico da nessuno fino a quando non raggiungono le comunità di accoglienza, spesso mesi dopo”.

Eleonora Pochi
Fonte: Parolibero

Amnesty: “Dopo 10 anni, ancora nessuna giustizia”

Secondo l'organizzazione per i diritti umani, i terribili atti di violenza avvenuti in occasione del G8 di Genova sono rimasti ampiamente impuniti

Dieci anni fa, Genova divenne lugubre teatro di morte. I rappresentanti degli otto paesi più potenti si riunirono per il G8, arroccati in una blindatissima zona rossa. Nelle quattro giornate del summit, oltre 200 mila persone si riversarono nelle strade della città ligure, ma nonostante la natura pacifica della protesta, si assistette a gravi atti di violenza ed un evidente abuso della forza da parte della polizia. Eppure, nonostante si sia arrivati addirittura ad uccidere con un colpo di arma da fuoco alla testa il ventitreenne Carlo Giuliani, l'Italia non si è ancora assunta la responsabilità per le inconcepibili violazioni di diritti umani commesse in quei giorni dalle forze di polizia.
Decine e decine di manifestanti sono stati massacrati. Durante l'irruzione alla scuola Diaz, adibita a dormitorio, decine di agenti di polizia picchiarono incessantemente coi manganelli molte persone, prendendole a calci, pugni e colpendole con legni e ferri presenti nella struttura. Le pochissime immagini reperibili in riguardo, ricalcano una macelleria messicana. Nel carcere provvisorio di Bolzaneto, oltre a picchiare allo stremo decine e decine di persone, gli agenti insinuavano minacce di violenza sessuale ed ulteriori percosse. Le persone picchiate a sangue, furono costrette a rimanere in condizioni disumane per oltre venti ore.
Dure le parole di Nicola Duckworth, direttrice del Programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International: “Dal G8 di Genova, abbiamo assistito in Italia a dieci anni di tentativi largamente falliti di chiamare le forze di polizia a rispondere di fronte alla legge dei reati commessi contro i manifestanti”.

L'organizzazione umanitaria accolse favorevolmente l'apertura dei processi Diaz e Bolzaneto: “Tuttavia – ha dichiarato Amnesty alla stampa -, poiché il codice penale italiano non prevede il reato di tortura, i pubblici ufficiali sospettati di aver torturato i manifestanti non sono stati incriminati per tale reato ma per altri che, sottoposti alla prescrizione, hanno portato sostanziale impunità”. Lo scorso anno l'Italia, oltre a non aver ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura, non ha accettato la raccomandazione da parte del Consiglio Onu di introdurre il reato di tortura. Inoltre, nonostante il Paese abbia aderito ai “Principi di Parigi”, non è stata ancora creata un'istituzione nazionale indipendente in grado di monitorare il rispetto dei diritti umani.

Amnesty International esprime sgomento e preoccupazione, temendo che “non aver affrontato lacune strutturali di tipo legale e istituzionale possa dar luogo, in futuro, a nuove violazioni dei diritti umani. L'impunità per violazioni commesse quali quelle in occasione del G8 di Genova del 2001 costituisce una macchia intollerabile nella storia dei diritti umani in Italia”. L'appello lanciato dall'organizzazione umanitaria, rivolto ai nostri rappresentanti istituzionali, è quello di condannare pubblicamente le barbarie commesse dalle forze di polizia dieci anni fa, sopratutto scusandosi con le vittime e le loro famiglie. Il 20 luglio 2001, in Piazza Alimonda, Carlo Giuliani fu raggiunto alla testa da un colpo di pistola, partito dalla mano di un uomo che, anziché operare in nome dell'ordine pubblico, ha sporcato la coscienza dello Stato con il sangue dell'ennesima vita umana spezzata.

Elenora Pochi
Fonte: Parolibero

Nasce il Sud Sudan tra armi, petrolio e coloni stranieri

Per il popolo del Sudan meridionale è una vittoria, una conquista d'indipendenza che segnerà la sorte dell'intero Paese. Sarà davvero l'inizio di una nuova era oppure la scissione rappresenterà l'aggravarsi di marcate ostilità?

Al “risiko africano” è stato aggiunto il 54° Stato. Il Sud Sudan è ufficialmente nato lo scorso 9 luglio, in seguito al referendum popolare per il quale il 99% dei votanti hanno voluto la separazione dal Nord. La sanguinosa lotta di secessione è durata 50 anni, alimentata non solo da ragioni economico-territoriali, ma anche da conflitti etnici spiegati dalla presenza nell’ex Sudan di numerose etnie e credo diversi: al settentrione arabi e islamici, al meridione cristiani e animisti. Da queste ragioni scaturì una lunga ed intensa guerra civile, che provocò quasi 5 milioni di vittime, metà delle quali bambini. La più grave crisi umanitaria al mondo, nella regione del Darfur, comportò più di 3 milioni di sfollati. La secessione di Juba da Khartoum è stata interpretata, quindi, da gran parte del popolo sudanese come la soluzione a problemi che la Nazione porta sulle spalle da decenni, mentre il Nord rimane nelle mani del dittatore Omar al Bashir, sul quale pende un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra e contro l'umanità commessi appunto durante la crisi del Darfur. Tallone d'Achille tra Juba e Khartoum è la piccola regione di Abey, contesa poiché ricca di petrolio. Lo scorso 21 maggio le truppe di al Bashir hanno invaso la città di Abey, costringendo alla fuga trentamila persone, affinché venissero allontanate le comunità ngok dinka, fedeli al governo neonato. Il dittatore sudanese non cede tuttora con l'occupazione dell'area, cosciente di possedere forze armate più equipaggiate rispetto quelle del Sud appena nato.

Analizzando l'aspetto socio-economico del Paese, ci si accorge che nel Sudan, benché il potenziale agricolo sia elevato, gran parte della popolazione è sotto la soglia della povertà, non c'è un apparato di infrastrutture adeguate e oltre la metà dei bambini non va a scuola, ma il mercato delle armi, uno dei più fiorenti del continente africano, non conosce povertà. Durante la guerra del Darfur, grazie all'importazione di tonnellate di maneggevoli e leggeri Ak47, vennero arruolati oltre 1,5 milioni di bambini come soldati. Chissà chi fece arrivare fiumi di armi nel Paese belligerante.

L'altro lato della medaglia dell'economia sudanese è rappresentato dal petrolio, preziosa risorsa che rappresenta il 98% delle entrate del Sud e il 90% del Nord. In merito, occorre considerare la sagace propensione al profitto dei paesi occidentali, ma non solo. Gli investitori stranieri hanno trattato con Juba ancor prima dell'ufficiale riconoscimento d'indipendenza dal Nord, approfittando della mancanza di istituzioni e di regole per accaparrarsi a basso costo terreni e giacimenti. “Un impresa texana avrebbe acquistato 600 mila ettari sud sudanesi – riporta l'agenzia stampa umanitaria dell'Onu -, per la modica somma di 25 mila dollari. Il prezzo all'ettaro assomma, quindi, a tre centesimi di euro”. Secondo fonti statunitensi, inoltre, la società Nile Trading and Development Inc avrebbe ottenuto così il diritto ad usufruire per circa cinquanta anni di qualsiasi risorsa naturale presente nell'area e starebbe trattando per l'appropriazione di altri 400 mila ettari. L'obiettivo di acquisti di così ampia portata è chiaramente mosso dal profitto speculativo generato dalla rivendita frazionata.
Per quanto riguarda il petrolio la Cina la fa da padrona, fornendo ad entrambi i Paesi sudanesi le attrezzature necessarie per l'estrazione e la raffinazione dell'oro nero ed acquistandone i due terzi prodotti. Non sorprende scoprire che, nonostante il risaputo appoggio cinese alla linea dittatoriale di al Bashir, Pechino ha già nominato un console cinese per il commercio con il Sud Sudan ed il 9 luglio, giorno della proclamazione dell'indipendenza dal Nord, ha inaugurato la sua ambasciata a Juba. Un'esempio calzante di quella che viene definita 'colonizzazione moderna'.

Eleonora Pochi