“Non per odio ma per amore” è un libro travolgente e “passionale”, come lo definisce Silvia Baraldini nella prefazione, una raccolta di fatti storici esposta con uno stile particolarmente attento alle emozioni; oltre duecento pagine intrise di una energia che le sei donne raccontate dalle autrici ancora emanano, benché siano state tutte brutalmente uccise. Colpevoli di perseguire un ideale, un amore internazionalista che nella vita di ognuna di loro ha sbaragliato qualsiasi logica individualista, capitalista, imperialista. Le loro esistenze, benché molto diverse, sono tutte legate dal filo dell’indignazione e dell’azione per la libertà e i diritti dei popoli. Il libro è stato scritto da Paola Staccioli, scrittrice cui “l’impegno politico ha sempre accompagnato la sua vita e non saprebbe immaginarsi senza”. L’altra autrice è Haidi Gaggio Giuliani, madre di Carlo. “Non sono una scrittrice – spiega nel testo -, sono solo la sorella di una libraia che nella forza della scrittura credeva davvero”. Tamara Bunke, Elena Angeloni, Monika Ertl, Barbaa Kistler, Andrea Wolf, Rachel Corrie sono le donne protagoniste dei fatti e dei racconti narrati. Due in particolare, Barbara Kistler e Elena Angeloni, hanno rappresentato per le autrici un catalizzatore emotivo che le ha spinte a scrivere il resto del libro.
Non solo fatti storici, ma anche emozioni. Quanto è importante associare il racconto di emozioni a fatti storici per far rimanere delle storie di vita nel cuore e nella memoria di chi legge?
Paola: Ci sono molti modi per “fare memoria” e tutti ritengo abbiano una loro validità. Il saggio storico come il racconto. Sicuramente la narrativa permette a chi scrive una maggiore libertà. Nella prima parte del libro abbiamo cercato di far emergere, attraverso le emozioni, le passioni e le ragioni che hanno portato le sei donne narrate a lottare, talvolta anche a combattere, per una società più giusta. Lo abbiamo fatto anche per cercare di raggiungere un pubblico di lettori più vasto di quello dei saggi storici, e soprattutto i giovani. E per far amare un po’ queste donne, come è accaduto a noi una volta che abbiamo conosciuto più a fondo le loro storie, le loro vite.
Silvia Baraldini, in occasione della presentazione romana del libro, ha affermato che soprattutto in
questo preciso momento storico, le donne dovrebbero riscoprire il loro ruolo attivo. Che va anche più in là della difesa dei diritti del mondo femminile. Cosa ne pensate?
Paola: Ritengo sia giusto che le donne lottino con forza per la difesa dei propri diritti. Penso anche però che una vera liberazione possa esistere solo in una società in cui siano superate la disuguaglianza, l’oppressione. E quindi che solo in questa lotta più generale, e nel superamento del modo di produzione capitalista, in una società senza classi, le donne potranno essere veramente libere.
Haidi, nel libro hai accennato a una questione di grande rilievo, l’interpretazione buonista e quasi “dolciastra” del pacifismo. Scrivere su Rachel ti ha permesso di maturare qualche riflessione particolare in riguardo?
Haidi: L’unico libro pubblicato in Italia che parli di Rachel è il testo di uno spettacolo teatrale che Alan Rickman e Katherine Viner hanno scritto basandosi sulle sue poesie, pagine di diario, lettere inviate ai familiari. Ne esce la figura di una ragazza come tante: seria e divertente nello stesso tempo, ricca di sogni e di umanità . O, per dirla con parole sue, “scombinata e deviante e troppo casinista”. E’ molto interessante leggere la posta che Rachel invia ai familiari ed amici rimasti a casa durante la sua permanenza in Palestina; non solo perché spiega la sua volontà di rimanere a Gaza. Le sue considerazioni sul conflitto diventano ogni giorno più severe; di fronte alle atrocità commesse dai soldati israeliani non riesce a mantenere un atteggiamento di equidistanza. E’ facile essere equidistanti quando si è lontani, nel tempo o nello spazio. Rachel è una “portatrice di pace” che ha scelto da che parte stare e non può sopportare l’idea di fare la spettatrice passiva di un genocidio.
La storia di Monika Ertl, la donna che uccise Quintanilla – console boliviano che ordinò l’esecuzione del Che -, ci insegna che talvolta la rivoluzione comincia proprio dalle mura domestiche. Figlia di un collaboratore di Hitler, Monica forse iniziò a maturare la sua contrapposizione al nazifascismo e all’imperialismo proprio negli anni della convivenza familiare. Cosa pensi di questa storia?
Paola: Sicuramente Monika ha avuto un’infanzia e un’adolescenza fortemente determinate dall’autoritario padre, e la sua ribellione è nata proprio in famiglia, inizialmente con un matrimonio determinato più da un desiderio di fuga che dall’amore. Presto però ha maturato una scelta più cosciente, una scelta politica che l’ha portata a unirsi all’Eln, l’Esercito di Liberazione Nazionale, organizzazione marxista-leninista che operava in Bolivia fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo. Era stata fondata da Ernesto Che Guevara, caduto in una imboscata e ucciso nell’ottobre del 1967 proprio in Bolivia. Molte volte è stato detto che Monika Ertl ha agito “per amore”, per vendicare il suo uomo, Inti Peredo, ucciso nella selva boliviana. Dalle storie di questo libro mi sembra emerga chiaramente che Monika, come le altre donne narrate, ha sicuramente agito “per amore”, ma non solo e non principalmente per amore di un uomo, quanto per amore della giustizia, della libertà dei popoli.
D’altra parte, ci sono casi come quello di Elena Angeloni, in cui pare che la propensione rivoluzionaria riesca a scardinarsi anche da ideologie opposte presenti in famiglia. Credo che Haidi confermi.
Haidi: Elena proviene da una famiglia borghese variamente collocata a destra, socialmente e politicamente. Lei è una ragazza intelligente e quindi si pone delle domande. A Genova, nella cerchia delle sue amicizie, ci sono i De Andrè: anche se il fratello maggiore diventerà famoso più tardi, Elena comincia già a respirare un’aria nuova. Tuttavia è a Milano, dopo la maternità e la successiva separazione dal marito, che matura una coscienza politica e compie delle scelte importanti. In alcuni casi il dna familiare non c’entra per niente; nella formazione di una persona influiscono molti altri elementi: letture, scuola, esperienze di vita, incontri…
Quanto credete nella forza delle parole?
Paola: «Le storie sono asce di guerra da disseppellire». Questa frase, contenuta nel libro dei Wu Ming e Vitaliano Ravagli Asce di guerra, credo dia chiaramente il senso della forza delle parole, dell’importanza del racconto, della narrazione nella conservazione della memoria. E nella memoria, nel ricordo delle lotte, e dei protagonisti delle lotte del passato, sono le radici del nostro presente. In questo libro parliamo di donne, di donne occidentali e quindi in un certo senso “privilegiate”, che hanno deciso di abbandonare la loro vita per andare in un altro paese e dedicarsi interamente al sostegno di una rivoluzione, di una lotta di liberazione. Sono donne molto diverse fra loro, che abbracciano circa 40 anni di storia, tutte accomunate dal fatto che a muoverle non è stato un interesse personale ma una volontà di giustizia. E questo dato mi sembra veramente importante in un mondo intriso di egoismo, individualismo, fondato sulla disuguaglianza sociale. Sottrarre le loro storie all’oblio è quindi importante, per ricordare le loro vicende, sicuramente, ma anche come insegnamento per il presente.
Eleonora Pochi
fonte: Fuori le Mura
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