Parla la giovane attivista Manal Al Tamimi: "Israele colpisce il villaggio aggredendo i bambini o togliendoci l'acqua, ma noi siamo più forti delle loro armi".
Nabi Saleh è uno dei villaggi in cui da oltre tre anni ogni venerdì si protesta pacificamente contro l'occupazione. È qui che è stato ucciso Mustafa Tamimi da un lacrimogeno lanciato da un soldato israeliano, assolto qualche giorno fa dall'esercito. Ma nel piccolo villaggio, nonostante sappiano che la legge non è per nulla uguale per tutti, non si rassegnano. Una comunità di appena 600 anime, a ridosso della quale è stata costruito Halamish, insediamento israeliano illegale, come tutto il resto delle colonie in Cisgiordania. I coloni spesso attaccano i cittadini palestinesi, distruggendo i loro campi o danneggiando le loro case. L'esercito fa il resto. Ogni venerdì è sempre più difficile contenere la violenza militare, senza essere armati.
Manal Al Tamimi è una giovane donna, membro del comitato di resistenza nonviolenta di Nabi Saleh. "Lottiamo contro l'occupazione - ci racconta - e abbiamo scelto di resistere in modo nonviolento. Sappiamo che il mondo giudica noi palestinesi come terroristi. Sappiamo che Israele ha fatto letteralmente il lavaggio del cervello al mondo, facendoci passare per una massa di violenti. Basta essere palestinesi per pensare automaticamente che minacciamo gli israeliani. Resistere pacificamente non è per niente facile, significa rispondere in modo nonviolento a tutte le aggressioni e soprusi che subiamo quotidianamente, soprattutto l'esproprio illegale delle nostre terre e la distruzione o il furto delle nostre risorse.
"La scelta della nonviolenza va pagata e siamo disposti a pagarla - continua Manal - Non abbiamo nulla da perdere. È meglio resistere e morire con dignità piuttosto che morire nell'umiliazione". Il prezzo che la nonviolenza deve pagare non è solo l'asimmetria nell'uso della forza. È il saper sopportare e reagire alle intimidazioni, alle minacce. Metabolizzare certi episodi è quasi impossibile. Manal Al Tamimi spiega che i loro bambini sono stati presi di mira da Israele: riversare intimidazioni e soprusi sui bambini è il colpo più profondo che si possa sferrare. "La cosa peggiore nella scelta di resistere è che i nostri bambini ne soffrono. Israele ha cominciato a mirare sui bambini. Per questo hanno ferito i nostri figli. Dieci bambini di età inferiore ai 10 anni sono stati colpiti. Usano pallottole, prodotti chimici".
Nel villaggio bisogna fare i conti con problemi che intaccano significativamente il normale svolgimento della vita familiare e domestica: "Abbiamo poca acqua. Ne possiamo usufruire per dodici ore alla settimana e quasi sempre di notte. Inoltre hanno cercato di inquinare questa poca acqua con un prodotto chimico, con un odore simile a un morto in putrefazione".
Il villaggio è abitato da circa 600 persone e lo scorso anno quasi tutti i cittadini di Nabi Saleh sono stati feriti: "Oltre 400 feriti. Tutti noi siamo stati feriti almeno una volta". Manal ci tiene a precisare che la loro è una lotta contro il sionismo, non contro il giudaismo: "Molti israeliani ci dicono che siamo antisemiti, ma noi in realtà combattiamo solamente contro chi ci ruba vita e speranza, non ci interessa che siano ebrei. Da quando abbiamo iniziato la nostra resistenza nonviolenta abbiamo avuto per la prima volta rapporti con israeliani, attivisti che lottano con noi per i diritti umani. È una guerra militante che ci unisce, per cambiare la mentalità. Se volete considerare l'altro come nemico lo potete fare - avverte Manal - ma ricordate che potrebbe esservi nemico anche un fratello. Non combattiamo il giudaismo. Abbiamo buone relazioni con israeliani attivisti, non le abbiamo con i coloni che cercano di ucciderci non appena mettiamo piede fuori di casa. Questo concetto della non violenza è nuovo e, quindi, difficile. È estremamente complicato rispondere con la nonviolenza a tutta la violenza che ci si riversa addosso. Ma siamo e saremo più forti delle loro armi".
Al Tamimi conclude spiegando che tra i Comitati popolari sta cominciando a farsi spazio un nuovo modo di pensare ad una risoluzione del conflitto: "Abbiamo cominciato a parlare di uno Stato unico, non di due Stati. Perché la soluzione dei due Stati ucciderebbe i palestinesi, ghettizzandoli ancora di più in uno spazio circoscritto. Uno Stato in cui potrò essere libera di andare a pregare a Gerusalemme, un solo territorio che garantisca diritti per tutti".
Eleonora Pochi
Fonte: Nena News
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