07/07/15

GAZA: Attivisti internazionali? Meglio chiamarli passivisti


Nella Striscia di Gaza alcuni giovani raccontano di progetti di sviluppo mai messi in atto, raccolte fondi inesistenti, attivisti in cerca di affermazione personale


Molti studiosi negli ultimi decenni si sono dedicati allo studio della figura del volontario elaborando teorie psicosociologiche che sfatano il luogo comune dell’“attivista/volontario” di paladino intento a remare controcorrente nel mare dei valori perduti.

Una teoria di Daniel Batson, uno tra i più grandi esperti di psicologia sociale, distingue tra “interesse empatico, come motivazione puramente altruistica, e il disagio personale dove si aiuta il prossimo per ridurre il proprio stato di malessere di fronte alla sofferenza altrui”. In questo ultimo caso si tratta di “motivazione egoistica”, per la quale persona tende anche a sostituirsi all’altro convinta di procedere per il meglio.

Considerando questo tipo di atteggiamento ad ampio raggio, una delle conseguenze scaturite risiede in progetti di sviluppo quasi inutili, che non corrispondono alla domanda locale. Una indispensabile buona prassi dei progetti rivolti a target di popolazioni in situazioni di disagio e/o sottosviluppo è la capacità di percepire il giusto intervento intercettando ed ascoltando i bisogni della popolazione locale. Per riprendere Carlos Costa, progettista internazionale e docente di progettazione, occorrerebbe sempre ricordare che “un buon progetto di sviluppo non parte da una propria idea, ma da una richiesta locale”. Considerando tutto questo, si spiega come talvolta i volontari/attivisti che tendono a sostituirsi all’altro, mettono in atto interventi e attività di cui la popolazione locale non ha bisogno almeno nell’immediato, o che rappresentano risposte collaterali che non sopperiscono a bisogni primari ed urgenti.

Secondo recenti stime della Banca Mondiale, il tasso di disoccupazione nella Striscia di Gaza è salito al 43%, il più alto del mondo. Il 60% de giovani non ha occupazione, tantomeno la libertà di emigrare per cercarla. La ricostruzione dopo gli ultimi bombardamenti ancora non è partita, l’elettricità è un lusso di cui, dopo il tramonto, migliaia di persone non possono godere.

Eppure alcuni giovani locali hanno raccontato di come ci siano stati progetti mai realizzati, soldi raccolti da campagne di fundraising internazionali e locali che non sono stati impiegati negli interventi pubblicizzati. Hanno spiegato: “Spesso ci contattano sul web o di persona giornalisti, che sono in cerca di chissà quali informazioni . E alcuni si spacciano per giornalisti, ma non lo sono. Sono solo persone che cercano di utilizzarci, che sono alla ricerca di affermazione personale. Vivere qui non significa che ci manca la dignità…e ci piacerebbe non essere umiliati anche in questo modo”. Nella Striscia sdi Gaza succede che alcuni volontari/attivisti internazionali visitano spontaneamente delle famiglie, nelle loro case. Senza conoscerli, senza un invito, senza un motivo concreto. Tutto questo sembra essere espressione di un razzismo “al contrario” (così viene definito, in gergo popolare, questo fenomeno).

Viceversa, capita che alcuni locali cerchino disperatamente l’attenzione degli internazionali sperando in un po’ di visibilità, o magari in un aiuto per uscire da quel carcere a cielo aperto. Alcune ricerche accademiche che analizzano il fenomeno spiegano che “forse non è del tutto azzardato suggerire che spesso i volontari hanno più bisogno degli assistiti che non gli assistiti dei volontari”(A. Pangrazzi).

Sembrerebbe, inoltre, che alcuni siano praticamente incriticabili. “Quando si prova ad esprimere la propria opinione, la gente ti attacca dicendoti ‘loro hanno lasciato le loro case e le loro famiglie per aiutarvi e voi li attaccate?’ “ racconta un giovane operatore sociale di un campo profughi nel sud della Striscia. Certamente si tratta di un fenomeno minimale, rispetto al grande supporto che professionisti, operatori e l’attivismo concreto danno alla popolazione, ma dovrebbe comunque far riflettere.

“Per alcuni il volontariato è molto gratificante – si apprende da una ricerca di Pangrazzi – perché dà significato nuovo alla vita, per altri serve ad alleviare un certo senso di isolamento; per altri ancora può contribuire alla pace interiore o alla soddisfazione di avere un certo protagonismo”. Va da sé che una popolazione martoriata da guerre, embrargo, discriminazione e povertà avrebbe bisogno di un supporto sano, non di buonismo. 

Eleonora Pochi 
Fonte: Nena News

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